Gli Arhat e la via della compassione

di Daniel Goleman

Han Shan piange quando muore una persona che ha conosciuto e amato. Ryokan versa una lacrima per la sorte di un adolescente testardo. Queste sono lacrime di compassione, non di rabbia, ira o tradimento. Infatti, davanti ai travagli della vita, questi esseri sono essenzialmente imperturbabili: i loro cuori possono ancora spezzarsi alla vista delle sofferenze degli altri, ma le loro lacrime sono prive di attaccamento.

Tale è la vita emotiva degli “arhat”, i “Nobili” del buddismo, coloro che hanno estinto ogni passione. La loro è un’equanimità oltremondana; il canone Pali, i testi classici del buddismo Theravada, descrivono gli arhat come esseri così rilassati da poter facilmente “sopportare il caldo, il freddo, la fame, la sete, la puntura delle zanzare e dei tafani, le creature dell’aria e della terra, il linguaggio offensivo, le sensazioni fisiche dolorose, pungenti, dure, brutte, fastidiose e mortali”.

Questi sereni santi buddisti sono un modello prezioso, fonte di ispirazione per il meditatore comune. Ma, in un certo senso, sono problematici. Il loro aspetto sereno rappresenta un tipo ideale, la pace alla fine del cammino… Che però sembra qualcosa di remoto e irraggiungibile dalla limacciosa realtà dei praticanti.

Potrei citare un numero infinito di casi in cui, qualche settimana, giorno od ora dopo essere tornato da un ritiro in un ottimo stato d’animo (che mi piacerebbe definire, in qualche modo, “da arhat”), mi sono improvvisamente ritrovato d’umore brutto e irritabile. Per colpa del traffico, di un assegno falso, delle zanzare, dei tafani, di un linguaggio offensivo… Le diecimila seccature della vita. A un arhat non accadrebbe mai. Ma alcune recenti scoperte sulla neurofiosiologia delle emozioni mi fanno provare più comprensione per me stesso, in questi momenti.

Una parte del cervello, una struttura chiamata l’amigdala, è stata identificata come la sede dei ricordi emotivi intensi: in essa sono immagazzinati i traumi, le ferite, la paura, la rabbia ecc. Di fatto, i ricordi amari e pungenti vi sono conservati con una forza particolare: gli stessi ormoni che spingono il corpo a lottare o fuggire segnalano all’amigdala di codificare questi ricordi nel modo più indelebile possibile.

A lungo si è pensato che l’amigdala venisse allertata sulla natura emotiva degli eventi da segnali provenienti dal cervello razionale, che prima vi rifletteva sopra. Ma adesso i neuroscienziati hanno scoperto che l’amigdala ha un accesso diretto all’area che decifra nel linguaggio del cervello i segnali sensoriali provenienti dall’occhio e dall’orecchio. Questa via di accesso aggira completamente il cervello ed è in grado di provocare una reazione emotiva prima che abbiamo il tempo di pensarci.

Una vasta rete di circuiti parte dall’amigdala verso tutte le aree del cervello, rendendola capace di provocare in noi una reazione di rabbia o paura in meno di un secondo. Questo vuol dire che l’amigdala funge da irascibile e nervosa sentinella, intenta a esaminare tutto ciò che ci accade per vedere se può collegarla a qualche minaccia del passato. Se è così (e il “legame” può essere alquanto impreciso), essa suona un allarme, “sequestrandoci” emotivamente prima che la mente razionale abbia avuto letteralmente tempo di capire cosa stia succedendo.

Questo sequestro ha la forma di un arco: raggiunge un picco di intensità e reattività emotiva, poi gradualmente decresce. La domanda è: quando comincia il sequestro, quanto tempo impieghiamo a tornare in noi? Propongo che un’indicazione del progresso sul cammino consista in un più veloce tempo di recupero dai nostri sequestri emotivi.

Gli arhat, naturalmente, non hanno mai queste reazioni, anche se i dettagli delle loro dinamiche emotive dipendono dal livello e dal tipo di arhat (ed esistono tanti tipi di arhat quante sono le scuole di buddismo). Alcuni sostengono che un arhat può avere un’inclinazione passeggera verso un sentimento afflittivo, ma mai la piena emozione; come ha detto una fonte: “Gli arhat possono scivolare, ma mai cadere”. Secondo altre scuole, gli arhat hanno sradicato il minimo segno di emozioni disturbanti, in quanto “hanno vinto il nemico” – “kilesas”, o tendenze negative – “che offusca e disturba la mente”. Piuttosto, la gamma delle loro emozioni è trascendente: compassione, gentilezza amorevole, equanimità. Quando piangono, le loro lacrime sono motivate da questi sentimenti superiori, non dall’attaccamento.

Consideriamo alcuni tratti emotivi distintivi dell’arhat (secondo un elenco compilato dallo studioso svedese Rune Johanssen, ricavato da fonti Pali sulla vita di uomini e donne che divennero arhat più o meno all’epoca del Buddha): gli arhat non provano ansia, risentimento o rabbia; non hanno paure di alcun tipo e in loro non esiste lussuria o desiderio di piaceri sensoriali; non provano la minima avversione verso condizioni come la sconfitta, l’infamia e il disonore; non desiderano niente che non sia lo stretto necessario e non hanno alcun desiderio consumistico.

Allo stesso tempo, l’arhat mostra una percettività rapida e intensamente operante, oltre a un’acuta capacità di attenzione; inoltre, ogni esperienza è per lui fonte di un tranquillo piacere (non importa quanto mondana o noiosa). Gli arhat sono l’opposto di una persona goffa e maldestra: ogni loro attività è caratterizzata da compostezza e maestria. Oltre a ciò, gli arhat personificano qualità trascendentali: l’equanimità in ogni circostanza, l’imparzialità verso gli altri, la compassione e la gentilezza amorevole.

Per i meditatori moderni, il problema è che le virtù degli arhat sembrano incredibili. Forse è comprensibile. L’arhat è il prototipo buddista del santo, un prototipo che spicca nei moderni sistemi di pensiero per la sua assenza. La radicale trasformazione dell’essere rappresentata dall’arhat oltrepassa gli obiettivi e i sogni più grandi delle nostre filosofie e psicoterapie; da un punto di vista moderno, l’arhat è troppo bello per essere vero.

Per noi, meditatori comuni, la distanza tra la squallida realtà delle nostre emozioni e i luminosi standard dell’arhat sembra insormontabile. È come se questi ultimi fossero caduti da qualche galassia vicina, forse da Alpha Centauri.

Paragonarsi a un arhat vuol dire favorire la demoralizzazione. Piuttosto, proporrei un modello più accettabile per misurare i progressi emotivi dei meditatori. Anziché usare come metro di paragone i più grandi campioni olimpici di tutti i tempi, potrebbe essere utile valersi di una scala di misura più modesta.

Nella classica psicologia buddista, i “fattori mentali” – le qu
alità della mente che si combinano “aromatizzando” e definendo i nostri stati mentali di momento in momento – determinano la realtà dell’osservatore. Come dice un proverbio zen: “Per l’amante, una donna bellissima è un piacere; per un monaco, una distrazione; per un lupo, un pasto”. Questo sistema psicologico distingue le qualità mentali “pure” e sane da quelle nocive o “afflittive”. La regola pratica fondamentale alla base di questa lista è se una qualità della mente aiuta od ostacola la meditazione.

La principale qualità nociva è l’illusione, un offuscamento percettivo; tale ignoranza fondamentale viene considerata la radice della sofferenza. Tra le altre qualità percettive di una mente non sana vi sono la perplessità, che riempie di dubbi una persona, e l’impudicizia, che porta a ignorare i propri valori morali. Una terza è il narcisismo. Le restanti qualità nocive sono di natura emotiva: l’agitazione, la preoccupazione, l’avidità, l’avarizia, l’invidia, l’avversione, la contrazione e il torpore. Questa lista, ovviamente, non è solo del buddismo: chiunque abbia studiato il catechismo durante l’infanzia vi riconoscerà alcuni dei “peccati mortali” del cattolicesimo.

La principale qualità sana è l’intuizione, la chiara percezione delle cose così come sono. Una seconda è l’attenzione, che sostiene tale chiarezza. Queste due qualità, da sole, sopprimono tutte quelle negative. Un gruppo – la modestia, la discrezione, la rettitudine – è di supporto alla vita etica. Un altro – l’elasticità, la flessibilità, l’adattabilità e la bravura – dona agli arhat scioltezza naturale, serenità e maestria in ciò che fanno. Il resto – il non-attaccamento, la non-avversione, l’imparzialità e la compostezza – riflettono quella tranquillità fisica e mentale che è il “marchio di autenticità” della vita emotiva degli arhat, in quanto tali. Nella mente degli arhat non sorge alcuna qualità nociva.

Per quanto riguarda il resto di noi, queste qualità mentali costituiscono una “lista di controllo” grazie alla quale possiamo misurare i nostri cambiamenti di umore. Nella misura in cui il nostro stato mentale tende gradualmente alle qualità della lista sana – o si distacca più rapidamente dagli stati negativi – la pratica sta procedendo nella giusta direzione: verso una leggerezza dell’essere.

da: Tricycle magazine, www.tricycle.com

Traduzione di Gagan Daniele Pietrini

Fonte: INNERNET. Percorsi di consapevolezza e anima del mondo.

http://www.innernet.it/geoxml/home

Bibliografia

Daniel Goleman, Dalai Lama. Emozioni distruttive. Liberarsi dai tre veleni della mente: rabbia, desiderio e illusione., Mondadori. 2003; Daniel Goleman., Intelligenza emotiva, Rizzoli. 1996; La forza della meditazione. Rizzoli. 2003; Menzogna, autoinganno, illusione. Rizzoli. 1998.

Vedi anche:

LE GRANDI VIE SPIRITUALI
Il mandala buddhista di Gianni De Martino.
Fonte: http://www.globalvillage-it.com/enciclopedia/index.htm

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Lama Yeshe, Buddhismo in Occidente Una via per una nuova ecologia della mente, trad. it. di Lorenzo Vassallo, prefazione di Gianni De Martino, Chiara Luce Edizioni 1990; Il Suono del Silenzio Cristianesimo e Buddhismo, trad.it. Silvia Mori, prefazione di Gianni De Martino, Chiara Luce Edizioni 1985.

Il libro Il Suono del Silenzio Cristianesimo e Buddhismo include una meditazione sulla figura divina di Gesù, la storia del santo tibetano Je Tzong Khapa e una dissertazione sullo sviluppo dell’amore e della compassione, comuni sia al buddhismo che alla cristianità.

Fonte: http://www.chiaraluce.it/Default.htm

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Osservazione. Gesù di Nazareth era certamente uomo ed ebreo, ma Gesù risorto, il Cristo, non è né uomo, né donna, né ebreo, né gentile, né tibetano, e neanche cristiano o cristianista, buddista, musulmano o indu. Il valore " universale"  del Cristo affiora nell’esperienza spirituale nutrita dalla preghiera, la meditazione, l’uso dei sacramenti e, per quanto riguarda chi scrive, il rispetto per l’insegnamento e i dogmi della Chiesa cattolica e la fedeltà alle proprie “radici” o “rizomi” costituiti da una memoria, da una creatività  e da una storia relative.

Cristo non è solo Gesù, ma ovunque grazie all’azione dello spirito santo – che “soffia dove vuole” – vi siano cuori, menti e anime aperti all’innumerevole esistere, mani e piedi davvero in grado di riportare – non troppo in fretta – ognuno, ognuna, sano e salvo alla casa del Padre. Senza perdere mai la speranza, la consapevolezza e la pratica dei modi umani e divini dell’aiuto reciproco e dell’entrare in una relazione decente e significativa con se stessi, con l’universo o i multiversi, con gli altri e con l’Altro, in una poetica rinnovata della comunione.

In termini psicologici si tratta di non subire irresponsabilmente la prepotenza di ciò che per tranqullità chiamiamo Inconscio, quando questi affiora nelle immagini o di una natura indifferente oppure di un dio oscuro. In tal senso la divinoumanità del Cristo si costituisce anche come Imago Dei che media fra l’io e il non-io, questo mondo e l’altro, il visibile e l’invisibile.

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In cronaca

Articolo con il quale "Avvenire" ha riferito del convegno “Mente, cervello e spiritualità.” domenica 21 novembre 2004 "Ma i neuroni non tolgono l’anima

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Estratto da :

La natura della consapevolezza, intervista a Oliver Sacks

di Christian Wertenbaker

Oliver Sacks: La coscienza è solo un’interiorizzazione della disciplina dei genitori e delle sanzioni sociali, o esiste qualcosa che trascende tutto ciò, un senso del bene e del male? Io credo che esiste una forma trascendente di coscienza, che non ha nulla a che fare con ricompense e punizioni.

Christian Wertenbaker: Questa coscienza è qualcosa che si impara o è innata?

Oliver Sacks: Wittgenstein usava il termine decenza, cioè se si era esseri umani decenti. Non vedo come si può dire se una cosa come questa è appresa o innata, perché la gente, a parte i ragazzi-lupo e cose simili, subisce sin dall’inizio l’influenza del mondo della cultura. È difficile parlare della “natura umana” in quanto tale, perché siamo sempre sotto l’influenza della cultura. Questa è una delle ragioni per cui i ragazzi-lupo sono così affascinanti: per questa idea secondo cui potremmo vedere in essi la natura umana allo stato primitivo.

Christian Wertenbaker: Il sistema visivo è chiaramente sia innato che acquisito: si nasce con un sistema connettivo innato che è massicciamente modificabile dalle esperienze, e che non si svilupperà adeguatamente se non verrà esposto a queste ultime.

Oliver Sacks: Giusto. Direi che allo stesso modo può esistere una sorta di primitivo sistema connettivo morale all’interno dei lobi frontali, e tra questi e il sistema limbico ecc., lo sviluppo del quale può dipendere da complesse esperienze sociali e morali. La cosiddetta empatia è innata o acquisita?

Quando guido, sono affascinato dal comportamento sconsiderato, impulsivo, egoista, violento o criminale di certi guidatori. Questo mi fa sorgere il desiderio di conoscere più da vicino il loro tipo morale, così spesso li raggiungo per vedere la loro fisionomia morale, la posa, l’espressione dei volti.

Sono ossessionato dalla nozione delle bugie, o delle non-verità – mie o di qualcun altro – incluse quelle cose inconsapevoli che sono quasi automatiche. Nel mio lavoro, trovo che talvolta sono necessarie varie riscritture per raggiungere una sorta di correttezza morale e di equilibrio intellettuale (…).

Oliver Sacks: La coscienza è solo un’interiorizzazione della disciplina dei genitori e delle sanzioni sociali, o esiste qualcosa che trascende tutto ciò, un senso del bene e del male? Io credo che esiste una forma trascendente di coscienza, che non ha nulla a che fare con ricompense e punizioni.

Christian Wertenbaker: Pensi che esistono livelli intermedi di consapevolezza, oltre al sonno e la veglia?

Oliver Sacks: Oh sì. Ci sono dei momenti in cui si è più sensibili, in cui il proprio intuito è più vasto e profondo. Uno dei poteri dell’arte è rendere più grande e profonda, in modi diversi, la consapevolezza di una persona, che si tratti di consapevolezza estetica, morale o mistica. Questa è una funzione anche della scienza e della filosofia: favorire forme di consapevolezza intellettuale più ampie e profonde. Una persona ha degli stati d’animo, o degli umori, nei quali la consapevolezza sembra espandersi e farsi più comprensiva, accogliente, generosa, sensibile e anche particolareggiata, mentre in altre occasioni sembra restringersi. L’educazione andrebbe considerata come educazione della consapevolezza, e non solo come l’insegnamento delle varie professioni.

Esistono molte forme di consapevolezza. Per esempio, leggendo Simone Weil, avverto una straordinaria consapevolezza mistica e religiosa. Anche se non è alla mia portata e non rientra nei miei gusti preferiti, riesco ad avere un’intuizione dello spazio in cui si trova lei.

Christian Wertenbaker: Quando si sperimentano questo allargamento e questa “consapevolezza particolareggiata”, non siamo nello stesso campo di cui sta parlando Simone Weil?

Oliver Sacks: Forse. Esistono le esaltazioni. Come diceva Flaubert? “Anche la mente ha le sue erezioni”. William James pensava che le droghe, compreso l’alcool, erano mistagogiche, e certamente l’espressione “espansione di consapevolezza” era molto in voga negli anni sessanta. Anche la perdita e il dolore possono espandere la consapevolezza. Ho scritto la maggior parte di Risvegli subito dopo la morte di mia madre. Tutti i tipi di esperienza possono espandere la consapevolezza, e forse in questo c’è un elemento mistico.

Alla fine del mio libro L’isola dei senza colore, descrivo una passeggiata nella foresta in cui la percezione dell’antidiluviano, di prospettive immense del tempo, sembrava portarmi da un orizzonte egoico meschino, pressante e ordinario, a qualcosa di più spazioso e trascendentale… Un sentimento di amicizia con la terra, la sensazione di essere quasi coevo del mondo. È molto interessante muoversi tra piante, rocce, animali e isole molto più antichi dell’uomo (…).

Christian Wertenbaker: L’idea di un Dio che guarda in basso verso di te è chiaramente non-atea, ma è anche possibile considerarsi più piccoli di una cellula, dal punto di vista dell’attenzione ricevuta, e continuare a percepire l’esistenza di una sorta di scopo.

Oliver Sacks: Sì, in un certo senso si contribuisce alla storia dell’universo… Ma, detto questo, mi accorgo che parole come paradiso e inferno, benedizione e maledizione, preghiera e ringraziamento, sono spesso sulle mie labbra. Sul mio comodino tengo una Bibbia e un dizionario. Non posso dire di leggere la Bibba come se fosse letteratura, o perché mi piace il linguaggio della versione di Re Gia
como, anche se è così. Forse è un po’ come Vermeer o Bach: trovare un accesso almeno indiretto a un altro mondo o a molti altri mondi. Penso che occorre avere un atteggiamento di gratitudine per il fatto di essere vivi, e che bisogna sentirsi benedetti o privilegiati per essere qui, avere il pieno possesso delle proprie facoltà mentali e godere di discreta salute. Non sono sicuro del nome da dare a questo sentimento. Non si tratta solo di un sentimento morale. Spesso voglio dire grazie, ma a chi? Per cosa? Mi piace lavorare in un’atmosfera religiosa: tutti i mercoledì lavoro al mattino in un ospedale ebraico, e al pomeriggio in una casa cattolica.

Christian Wertenbaker: Nel pensiero medico dell’India, la mente viene considerata un altro organo di senso. Tu stai descrivendo un rapporto con il mondo che richiede la mente, perché essa può conoscere il significato di ciò che vedo; ma allo stesso tempo tale rapporto richiede qualcosa di più, perché la mente da sola non conduce a quel tipo di sentimento.

Oliver Sacks: Quando mi sento bene, ho la sensazione di essere un germoglio che sta sbocciando: questa sensazione, questa immagine biologica, per me, è l’immagine della consapevolezza e della coscienza. Non è assolutamente un’immagine meccanica. Winnicott sentiva che all’interno di ognuno c’era qualcosa di simile, che lui paragonava a un tulipano: un’identità unica e autonoma, inaccessibile alla consapevolezza, protetta da interventi o interferenze nei modi più comuni, e pensava che uno dei compiti della psicoanalisi fosse mantenere il terreno sgombro da tali interferenze. Credo che una delle ragioni per cui mi piacciono le piante sia la sensazione della loro persistenza in ciò che sono, senza essere – per così dire – spugne delle influenze sociali o altro.

Prendo la maggior parte delle mie metafore dal mondo biologico, e un numero sorprendente da quello vegetale. La gente direbbe subito: “Beh, siamo animali”, usando quindi metafore animali, ma penso che la nozione vegetale di un germoglio in fioritura sia un buon simbolo per la consapevolezza. Sono più sensibile al mondo nella natura che a quello della cultura e degli uomini. Che si tratti delle stelle, della foresta o di immersioni subacquee nelle barriere coralline, sento che queste cose espandono la consapevolezza.

Fonte:


Parabola 22:3 – Conscience and Consciousness

"The Nature of Consciousness: An Interview with Oliver Sacks”

http://www.daimon.ch/Parabola3.htm

Leggi tutta l’intervista a Oliver Sacks in italiano: http://www.innernet.it/geoxml/home

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Sphoera Mundi. Allegoria cristiana di Jan Provost ( primi del 500), Parigi, Louvre

Osservazione: l’espansione della consapevolezza fu il messaggio dei capelloni e dei figli dei fiori degli anni 60 e 70. Ma la ricerca si svolse, nella maggior parte dei casi, in una logica di iperconsumo e una ricerca di sensazioni forti, poi scolorita su tutta la società, non portando che ai “trip” e agli “sballi”, come si disse in gergo canagliesco, alludendo a niente di buono e a qualche disastro  tecnognostico

Continuo a pensare che la mera “espansione della coscienza” sia inutile in un mondo che già trabocca di emozioni, e che occorra invece, oltre che espandere ed aprire le cosiddette porte della percezione, ovvere aprire un po’ la mente e il cuore, anche intensificare la consapevolezza: ovvero riferirla a un centro e a un significato, fissando liberamente le barriere della fedeltà e del disinteresse. Altrimenti ci si disperde nel politeismo dell’esperienza e ci si dissipa nella ricchezza corrosiva della vita, per non dire del multicultarismo di chi dopo aver rinunciato alla propria fede, considerandola nient’altro che una illusione religiosa da decostruire, si fa schiavo di un “misto di illusioni” scientiste, neo-gnostiche e new age, compresa la credenza nelle cosiddette "energie" e nella cristalloterapia.

Vorrei poter dare le dimissioni dalla mia generazione sfortunata, quella che dopo aver rinunciato ai dèmoni del Novecento, da un po’ di tempo ha incominciato ad affliggere il mondo con gli angeli new age e l’orribile prospettiva – fra le tante escatologie triviali nate dall’andare dove porta il cuore – di un futuro rosa confetto e zapatero. Per non dire della dèrive ( questa idiozia ! ) in un giro senza fine – magari queer o dionisiaco – di travestimenti multipli che non mettono i progressisti in relazione con niente e nessuno, finendo come finiscono nel trash, ovvero la solita immondizia piagnucolante e il mare di pus ( rida chi può: nella maggior parte dei casi i credenti nell’economia rosa non offrono per niente spettacoli gioiosi o gai, e neanche gay. Quando poi hanno la disgrazia di credersi anche gnostici, nel loro nichilismo, tutto quello che sanno fare è offrire un pezzetto di carta assorbente alle creature che stanno
per affogare, rallegrandosi – come i miei colleghi dell’Adelphi – di veder passare il mondo. Magari tra le braccia di Sophia, se non di qualche Natura simile a una ballerina bella e naturalmente indifferente) .

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In rete

leggi "Il Dio della Rete"

di Carlo Formenti

Fonte: http://erewhon.ticonuno.it/

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Articolo con il quale il quotidiano della CEI "Avvenire" ha riferito del convegno “Mente, cervello e spiritualità.” domenica 21 novembre 2004 "Ma i neuroni non tolgono l’anima

E questo è l’articolo con cui ne ha parlato "L’espresso" : www.chiesa | La chimica dellanima
( Da “L’espresso” n. 45 dell’11 novembre 2004. di Sandro Magister ).

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3 risposte a

  1. anonimo scrive:

    Se mi guardo indietro, tra le cose belle e brutte di quegli anni, e mi chiedo cosa mi abbia veramente fatto male (nel senso di allontanarmi dalla pienezza della vita e della realtà, dal vero incontro con la persona umana), credo che sia proprio il carattere inconsapevolmente gnostico che l’ideologia della contestazione giovanile aveva in sè. L’errore originario, di marca rousseauviana, secondo cui l’uomo nasce buono ed è la società che lo corrompe, ci ha fatto cercare in lungo e in largo la purezza dell’autentico, in una presunta santità dei sentimenti (il caro cuore), delle pulsioni (il caro corpo) o dell’organizzazione (il caro Stato), così abbiamo infilato una serie di robinsonate, nella presunzione di ricominciare il mondo da capo e di farlo meglio, rimandando sine die l’unica forma di consapevolezza che distingue l’adulto dall’adolescente, cioè la pietà per i padri e il rispetto della storia.
    Quanto siamo colpevoli e quanto vittime delle circostanze? Ognuno risponda per sè.  Per parte mia, mi accuso di aver preferito la compagnia delle idee a quella degli uomini più di una volta, e di avere esercitato in nome di esse un terrorismo più o meno esplicito.
    Chiedo perdono all’padrone del campo, che ai servitori proibisce di strappare la zizzania perchè distruggerebbero con essa anche il grano, per non aver compreso il messaggio di pietà che si cela nella parabola, troppo occupato com’ero a vestire i panni del giudice, mentre ora questa stessa pietà imploro, come un sguardo misericordioso sul mio percorso zoppicante.
    Valter Binaghi

  2. giannidemartino scrive:

    Caro Valter, zoppicare non è peccato.

    Un abbraccio,

    Gianni

  3. giannidemartino scrive:

    Domenica 9 gennaio alle 17 presso il circolo ARCI "L’impegno" (via
    > Bodoni 15, Milano ) Valter Binaghi presenta dal vivo il suo nuovo romanzo
    > "Robinia blues" (Dario Flaccovio editore) con un reading musicale.
    > L’ingresso è gratuito.
    > Saranno con lui:
    > Alberto Della Vedova – pianoforte e hammond Clay Gatti – armonica e
    > sax Dimitri De Franciscis – chitarra Francesco Biocchi – batteria
    > Francesco Della Vedova – basso

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