L'altro Machiavelli

 L’ALTRO MACHIAVELLI

     Two young men, Crispin van den Broeck (1542 – before 1591) – Fitzwilliam Museum, Cambridge

Lettera scritta da Francesco Vettori, ambasciatore di Firenze presso il Vaticano, all’amico d’infanzia Niccolo’ Machiavelli

 Spectabili viro Nicholò Machiavelli in Firenze.

A’ dì 16 di Gennaio 1514.

Caro compare. Io non ho lettere da nessuno che io legha più volentieri, che le vostre, e vorrei potere scrivere molte choxe, le quale conosco non potersi commettere alle lettere. E’ sono più mesi che io intexi benissimo in che modo amavi, e fui per dirvi: « Ah, Coridon, Coridon, quae te dementia cepit? ». Poi, pensando intra me medesimo che questo mondo non è altro che amore, o, per dir più chiaro, foia, mi ritenni; e sono ito considerando quanto li huomini in questo chaxo son dischosto chol chuore a quello dicono cholla bocha.

Ha un padre il figluolo e dice volerlo nutrire honesto: non di meno gli chomincia a dare un maestro che tutto dì stia con lui et che habbi commodità farne a suo modo, e gli lascia leggere qualchoxa da fare risentire un morto. La madre lo pulisce, lo veste bene, acciò che piaccia più: quando chomincia crescere, gli dà una camera terrena, dove sia cammino e tutte le altre commodità, perché possa sguazare a modo suo, e menarvi e condurvi chi gli pare. E tutti facciamo choxì, et errano in questo, più quelli a’ quali pare essere ordinati: e però non è da maraviglarsi ch’e nostri giovani sieno tanti lascivi quanto sono, perché questo procede dalla pessima educatione. Et voi et io, anchor che siamo vechi, riteniamo in qualche parte e chostumi presi da giovani, et non c’è rimedio. Duolmi non essere chostì, perché potessimo parlare insieme di queste choxe et di molte altre.

Ma voi mi dite choxa che mi fa stare admirato: d’havere trovato tanta fede e tanta chompassione nella Riccia che, vi prometto, li ero per amor vostro partigiano, ma hora li son diventato stiavo, perché il più delle volte le femmine soglono amare la fortuna et non li huomini, et quando essa si muta mutarsi anchor loro. Di Donato non mi maraviglo perché è huomo di fede, e oltre a questo pruova del continuo il medesimo che voi.

Io vi scripsi che l’otio mi faceva innamorato et choxì vi raffermo, perché ho quasi faccenda nessuna. Non posso molto leggere, rispetto alla vista per l’età diminuita: non posso ire a solazo se non achompagnato, e questo non si può far sempre: non ò tanta auctorità né tante facultà che habbi a essere intratenuto; se mi ochupo in pensieri, li più mi arrechono melanchonia, la quale io fuggo assai; e di necessità bixogna ridursi a pensare a choxe piacevole, né so chosa che dilecti più a pensarvi e a farlo, che il fottere. E filosofi ogni huomo quanto e’ vuole, che questa è la pura verità, la quale molti intendono choxì ma pochi la dichano. Fo pensiero a primavera ridurmi a voi, se mi fia lecito, e parleremo insieme di questo et molte altre choxe. Racomandatemi a Filippo, Giovanni e Lorenzo Machiavelli e a Donato. Christo vi guardi.

Francesco Victori oratore in Roma

 «(Io) che tocco e attendo a femmine (…) harei detto: (…) qui non ci è garzoni, qui non sono femmine che casa di cazzo è questa?».

« E’ sono più mesi che io intexi benissimo in che modo amavi, e fui per dirvi: “Ah, Coridon, Coridon, quae te dementia cepit?” ». Fonte: classicitaliani Niccolò Machiavelli (1469-1527).

La seconda ecloga di Virgilio canta l’amore infelice o foia del giovane pastore Coridone per il bell’Alessi. Questi spregia l’amore di Coridone, nonostante la promessa di doni in quantità. Coridone vorrebbe far l’amore con Alessi, ma poi rimprovera se stesso: “Ah, Coridon, Coridon, quae te dementia cepit?” », come dire : sei rustico, per questo Alessi sprezza i tuoi doni. Perché trascuri i campi per tale amore? Se costui ti disprezza, ebbene, troverai un altro Alessi. (Rusticus es, Corydon; nec munera curat Alexis / nec, si muneribus certes, concedat Iollas. / heu heu, quid uolui misero mihi? floribus Austrum / perditus et liquidis inmissi fontibus apros, 56-59).

Il canto del pastore Coridone, evocato dall’amico d’infanzia del Machiavelli, costituiva un modello di desiderio omoerotico. Il tema bucolico percorre gran parte delle letterature europee, in chiave sia etero che omosessuale; e nel 1918 André Gide riprende tale modello intitolando Corydon ( pubblicato nel 1924) la sua difesa dell’omosessualità.

Secondo lo storico americano William Connel, , docente di storia alla Seton Hall University, nonché uno dei più illustri studiosi di Rinascimento italiano , si tratta dello stesso tipo di poesia classica che il maestro di grammatica e latino, fece leggere al giovane Machiavelli “tra i 12 e i 15 anni” ( Cfr. Corriere della Sera – «Da piccolo Niccolò Machiavelli fu molestato per anni da un prete, Ser Paolo Sasso, che era anche il suo maestro».

 

 

 

 

 

Lo studioso americano dà per scontato che se un maestro del Rinascimento fa leggere a un suo allievo un testo classico, in cui l’omosessualità è chiaramente presente, lo molesta anche, necessariamente, “ per anni” ( !). Presentata come un’ inedita scoperta (illustrata in esclusiva mondiale al Corriere online), in realtà si tratta di un’illazione indimostrabile sulla base del solo passo della lettera del Vettori ( "Ha un padre il figluolo e dice volerlo nutrire honesto: non di meno gli chomincia a dare un maestro che tutto dì stia con lui et che habbi commodità farne a suo modo, e gli lascia leggere qualchoxa da fare risentire un morto"), documento già noto da tempo grazie agli studi realizzati anni fa , nel 1999 (Cfr. La Nazione) , dal prof. Mario Martelli, dell’Università di Firenze. Nello studio del prof. Martelli pubblicato su ”Interpres” viene spiegato anche come l’ambasciatore fiorentino presso Papa Leone X, Francesco Vettori, sapeva apprezzare le nascoste metafore erotiche di Machiavelli, anche perche’, stando al gioco, le usava anche lui. In una di esse Vettori parlava di un giovane, tal Riccio, amante di Donato del Corno, e apprezzato per i suoi particolari servizi da Machiavelli.

In una lettera, datata 25 febbraio I5I4 Niccolo’ Machiavelli narra, inoltre, un’avventura di Giuliano Brancacci, uscito una sera a caccia di "uccelli". Machiavelli immagina di pedinare il Brancacci nella "caccia" :

"Passo’ il ponte alla Carraia et per la via del Canto de’ Mozzi ne venne a Santa Trinita, et entrato in Borgo Santo Appostolo ando’ un pezzo serpeggiando per quei chiasci che lo mettono in mezzo16; et non trovando uccelli che lo aspettassimo, si volse dal nostro battiloro, et sotto la Parte Guelfa attraverso’ Mercato, et per Calimala Francesca si ridusse sotto il Tetto de’ Pisani; dove guardando tritamente tutti quei ripostigli, trovo’ un tordellino il quale con (…) il lume et con la campanella fu fermo (fermato) da lui, et con arte fu condotto da lui nel fondo del burrone sotto la spelonca dove alloggiava il Panzano, et quelo intrattenendo et trovatogli la vena larga et piu’ volte baciatogliene, gli risquitti’ (reinnesto’) dua penne della coda et infine, secondo che gli piu’ dicono, se lo messe nel carnaiuolo di drieto"17.

A ser Niccolo’ fa eco Francesco Scambrilla, poeta minore del XV secolo, che in una sua composizione indica nelle viuzze di Firenze attorno a sant’Ambrogio la zona al limite della città in cui si concentrava la sottocultura omosessuale pre-moderna diffusa nella Firenze del ‘500 (non a caso la pederastia era conosciuta come «vizio fiorentino»): Chi vuol di ladroncelli una chiassata / cerchi da sant’Ambrogio in quelle vie / e troveravvi birri, messi e spie (…) / assassin, soddomiti e barattieri, / ch’alle volte s’uccidon come cani.

 

Mentre la non-identità italiana sembra strutturarsi secondo i modi del “segreto omosessuale”, l’identità americana sembra strutturarsi secondo una logica diffusa del sospetto anti-cattolico, al punto che lo studioso americano William Connel, dopo aver “scoperto” un Machiavelli molestato dal suo prete-maestro, arriva addirittura a sostenere che “ questo abuso spiega l’ostilità da lui nutrita fino all’ultimo nei confronti della Chiesa cattolica”. Si tratta di una “spiegazione” psicologica, o meglio di uno stereotipo che lascia il tempo che trova, tanto più che Machiavelli stesso – per il quale la religione resta "forte collante per le coscienze popolari"- spiega chiaramente ( tanto ne “Il Principe”, quanto nel capitolo XII del libro I dei “Discorsi sopra la I° Deca di Tito Livio”) che ciò che egli critica è la corruzione della Chiesa e dei Papi della sua epoca ( riconoscendo che proprio per questo motivo gli italiani sono diventati "senza religione e cattivi"). Era inoltre convinto che la mancanza del raggiungimento dell’unita nazionale, fosse dovuta al fatto che i Papi, per tutelare l’esistenza dello Stato Pontificio, prima si erano opposti ai Longobardi chiamando i Franchi, poi ponendo fine alle ambizioni della Serenissima Repubblica di Venezia. Il Machiavelli riteneva, giustamente, che gli italiani erano formalmente religiosi, ma nella realtà scettici e falsi per lo spettacolo indecoroso che la Chiesa offriva. Erano i tempi di Alessandro VI, di Leone X e della Riforma Luterana ( Cfr. Machiavelli, Sull’influenza della religione e Machiavelli, I danni della presenza della Chiesa cattolica per l’Italia ).

VOLTANDO CARTA

Lettera scritta da Niccolò Machiavelli a Francesco Vettori il 31 gennaio 1515

Firenze, 31 gennaio 1515

Francisco Victorio oratori.

Rome.

Havea tentato il giovinetto Arciere

già molte volte vulnerarmi il petto

con le saette sue, ché del dispetto

et del danno d’altrui prende piacere;

et benché fosson quelle acute et fiere,

ch’uno adamante non hare’ lor retto,

non di manco trovâr sì forte obbiecto,

che stimò poco tutto il lor potere.

Onde che quel di sdegno et furor carco,

per dimostrar(e) la sua alta excellenza,

mutò pharetra, mutò strale, et arco;

et trassene uno con tanta violenza,

ch’anchor(a) delle ferite mi rammarco,

et confesso et conosco sua potenza.

Io non saprei rispondere all’ultima vostra lettera della foia con altre parole che mi paressino più a proposito, che con questo sonetto, per il quale vedrete quanta industria habbia usato quello ladroncello dello Amore per incatenarmi. Et sono, quelle che mi ha messo, sì forte catene, che io sono al tutto disperato della libertà né posso pensare via come io habbia a scatenarmi; et quando pure la sorte o altro aggiramento humano mi aprisse qualche cammino ad uscirmene, et per avventura non vorrei entrarvi, tanto mi paiono hor dolci, hor leggieri, hor gravi quelle catene, et fanno un mescolo di sorte, che io giudico non potere vivere contento senza quella qualità di vita.

Et perché io so quanto tali pensieri vi dilettino et conoscere simili ordini di vita, io mi dolgo che voi non siate presente per ridere, hora de’ mia pianti, hora delle mia risa; [ uno sdoppiamento che sembra riecheggiare un sonetto del “Canzoniere” del Petrarca: “Cantai, or piango”, notato peraltro da Tommaso Giartosio ( “può dire molto al lettore gay”); un tale sdoppiamento psicologico o dissociazione creativa percorre gran parte delle [PDF] rivelazioni e “autodescrizioni” di autori o di personaggi delle letterature europee supposti o suggeriti come omosessuali, dal “je est un autre” di Rimbaud al “ non sono io, domani ritornerò me stesso” del giovane Torless di Musil ] et tutto quello piacere che haresti voi, se ne porta Donato nostro, il quale insieme con la amica, della quale altra volta vi ragionai, sono unici miei porti et miei refugii ad il mio legno già rimaso per la continova tempesta senza timone et senza vele. Et manco di dua sere sono mi avvenne che io potevo dire, come Phebo a Dafne:

Nimfa, precor, Petreia, mane: non insequor hostis,

nimfa, mane; sic agna lupum, sic cerva leonem,

sic aquilam fugiunt penna trepidante columbe,

hostes queque suos.

Et quemadmodum Phebo hec carmina parum profuere, sic michi eadem verba apud fugientem nichil momenti, nulliusque valoris fuerunt. Chi vedesse le nostre lettere, honorando compare, et vedesse le diversità di quelle, si maraviglierebbe assai, perché gli parrebbe hora che noi fussimo huomini gravi, tutti vòlti a cose grandi, et che ne’ petti nostri non potesse cascare alcuno pensiere che non havesse in sé honestà et grandezza. Però dipoi, voltando carta, gli parrebbe quelli noi medesimi essere leggieri, inconstanti, lascivi, vòlti a cose vane. Questo modo di proccedere, se a qualcuno pare sia vituperoso, a me pare laudabile, perché noi imitiamo la natura, che è varia; et chi imita quella non può essere ripreso. Et benché questa varietà noi la solessimo fare in più lettere, io la voglio fare questa volta in una, come vedrete, se leggerete l’altra faccia. Spurgatevi.

Pagolo vostro è suto qui con il Magnifico, et intra qualche ragionamento ha havuto meco delle speranze sue, mi ha detto come sua Signoria gli ha promesso farlo governatore di una di quelle terre, delle quali prende hora la signoria. Et havendo io inteso, non da Pagolo, ma da una commune voce, che egli diventa signore di Parma, Piacenza, Modana et Reggio, mi pare che questa signoria fosse bella et forte, et da poterla in ogni evento tenere, quando nel principio la fosse governata bene. Et a volerla governare bene, bisogna intendere bene la qualità del subbiecto. Questi stati nuovi, occupati da un signore nuovo, hanno, volendosi mantenere, infinite difficultà. Et se si truova difficultà in mantenere quelli che sono consueti ad essere tutti un corpo, come, verbigrazia, sarebbe il ducato di Ferrara, assai più difficultà si truova a mantenere quelli che sono di nuovo composti di diverse membra, come sarebbe questo del signore Giuliano, perché una parte di esso è membro di Milano, un’altra di Ferrara. Debbe pertanto chi ne diventa principe pensare di farne un medesimo corpo, et avvezzarli a riconoscere uno il più presto può. Il che si può fare in due modi: o con il fermarvisi personalmente, o con preporvi un suo luogotenente che comandi a tutti, acciò che quelli sudditi, eziam di diverse terre, et distratti in varie oppenioni, comincino a riguardare un solo, et conoscerlo per principe. Et quando sua Signoria, volendo stare per ancora a Roma, vi preponesse uno che conoscesse bene la natura delle cose et le condizioni de’ luoghi, farebbe un gran fondamento a questo suo stato nuovo. Ma se e’ mette in ogni terra il suo capo, et sua Signoria non vi stia, si starà sempre quello stato disunito, senza sua riputazione, et senza potere portare al principe riverenza o timore. Il duca Valentino, l’opere del quale io imiterei sempre quando io fossi principe nuovo, conosciuta questa necessità, fece messer Rimirro presidente in Romagna; la quale deliberazione fece quelli popoli uniti, timorosi dell’autorità sua, affectionati alla sua potenza, confidenti di quella; et tutto lo amore gli portavono, che era grande, considerata la novità sua, naccque da questa deliberazione. Io credo che questa cosa si potesse facilmente persuadere, perché è vera; et quando e’ toccasse a Pagolo vostro, sarebbe questo un grado da farsi conoscere non solo al signore Magnifico, ma a tutta Italia; et con utile et honore di sua Signoria, potrebbe dare riputazione a sé, a voi et alla casa sua. Io ne parlai seco; piaccqueli, et penserà d’aiutarsene. Mi è parso scriverne a voi, acciò sappiate i ragionamenti nostri, et possiate, dove bisognasse, lastricare la via a questa cosa.

Et nel cadere el superbo ghiottone,

e’ non dimenticò però Macone.

Donato nostro vi si ricorda.

Addì 31 di Gennaio 1514.

Niccolò Machiavegli in Firenze

               da: Niccolò Machiavelli, Tutte le opere a cura di Mario Martelli, Sansoni Editore, Firenze 1971 .

Catalogo libri di  Niccolò Machiavelli

 

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