Commedie del pensiero, Via Lattea

  COMMEDIE DEL PENSIERO

VIA LATTEA

l”Universo, questa scintillante metafora che ancora per poco ci contiene; e anche, più concretamente, l’oceano, il fuoco e il tuono della vita e della morte.

In realtà noi viandanti saremmo qui, sul pianetino in bilico in un angolo dell’ Universo o Multiverso di profondità ed estensione sconosciute…in continua espansione e mutazione fra gas, ori & vapori…

The center of our Milky Way galaxy, as seen in the infrared using the Keck Laser Guide Star (left panel) and the Keck Natural Guide Star (right). The white cross marks the location of the supermassive black hole. ( dal sito http://www.astro.ucla.edu/~jlu/gc/ )

 Ma quando mai abbiamo aperto quella porta per ritrovarci polvere, sia pure polvere di stelle, nel rimbombo del tuono della vita e della morte.

Sveglia, sveglia! dice la Ragione – che in questi ultimi due secoli ci ha permesso di disporre di vasti beni materiali e di qualche conoscenza, ma la cui veglia ha anche prodotto qualche mostro ( i campi di sterminio, due guerre mondiali di cui una finita con l’atomica; e oggi ricerche nucleari in Iran, test atomici in Nord Corea, il suicidio demografico dell’Europa, le nuove ambizioni e le crudeli esazioni dell’islam militante, l’avvento dell’epoca dello squilibrio del terrore ) .

Quaggiù, la polvere roteante della modernità, ovvero del ciclone e della più grande mutazione dopo quella del Neolitico; lassù , nel cielo ampio e profondo, dai nuclei attivi delle galassie l’intensa gioia e l’agonia della materia che cade in qualche buco nero ipermassiccio. Nello stesso tempo, nel ribollire di gas ori & vapori, nuove stelle nascono a ritmo frenetico…

Cosmologia gioiosa? Piuttosto, con Kafka, la sensazione di “un continuo mal di mare in terra ferma”.

Una tale superstruttura, l’Universo o Multiverso, conterrebbe un numero infinito di mondi, diversi tra loro per le costanti fisiche, per le forze agenti e per le dimensioni dello spazio. Alcuni di questi mondi sarebbero talmente "gracili" da non svilupparsi neppure; altri, come il nostro, sarebbero capaci addirittura di ospitare una pellicola di vita, un po’ d’intelligenza affiorante tra l’innumerevole esistere, qualche mostro e l’anelito alla trascendenza.

A cosa serve, infatti, sporgersi sulla Via Lattea senza la consapevolezza di essere altro dall’ Universo?

Così, forse altro dal centro incandescente della Bolla o Multibolla ci sarebbe una qualche un’intelligenza sveglia e un cuore caldo e compassionevole. Ma chi tra culla e bara – ovvero tra due pulsioni – può giurare: questo è il centro, e quella è la periferia?

Se non giungere alla dorata rosa centrale o all’autore dell’ Intelligent Design , a noi ciechi dell’odorato non resta che contemplare il mistero del Forno. E credere di poter ardere senza bruciare. Chi ti dirà cos’è il mistero del Forno? Il “gran mar dell’essere” ? ( Dante); un naufragare “dolce” ? ( Leopardi); L’infinito? Va’ citrullo ! Per non dire della deriva degli universi, del post-moderno, del post-mortem e del post-tutto. La dèrive, questa idiozia!

LA RAGIONE CHE CERCA

Ma crediamo davvero di essere venuti da soli al mondo e che non ci sia e non possa esserci una stella ad andarci innanzi e qualcuno che ci conduca per la manina ?

"Credo che ciò che caratterizza la modernità sia il risentimento per tutta la realtà come dato, per tutto ciò che si presenta come dato. E che non ci sia salvezza per noi tutti se non nell’abbandono di questo risentimento, ovvero nel ritorno alla gratitudine. Ma questa è una disposizione d’animo che ci risulta particolarmente difficile, da quando viviamo in un mondo senza Dio. Cioè davanti a un dato senza il Donatore." ( Alain Finkielkraut , citato da il Sorvegliato Speciale che saluto con un cenno della manina, tra due stelle… una vertigine di stelle che questa santa notte dell’adorazione dei Magi brillano chiare, quasi frenetiche…).

Gratitudine verso “chi” ? I sensi saltano nei pensieri , e i pensieri saltano nella “ragione che cerca”. Avete qualcosa per illuminarci? Qui anche le idee più chiare brillano su sfondo oscuro. E in un secolino che appena nato già tramonta tra la violenza e la brutalità, così com’è cominciato, le domande e le risposte assomigliano sempre più a una specie di oblìo fondamentale.

LA LETTERA RUBATA

Quante volte, chiudendo un libro di storia ( l’ultimo che ho letto è un libro sulla deforestazione dell’isola di Pasqua, che portò al crollo di quella civiltà) siamo portati a dire: “ Ma com’è possibile che gli uomini siano stati così ciechi per lungo tempo di fronte all’esistenza di ciò che sembrava il simbolo dell’evidenza stessa?”. E’ come la storia della “Lettera rubata” di Edgar Allan Poe, ripresa da Lacan, la storia di una lettera compromettente messa in evidenza su un tavolo davanti agli investigatori affinché non la vedessero, pensando che una lettera così importante dovesse trovarsi ben nascosta da qualche altra parte. Vecchia storia, già presente nel pensiero di nonno Aristotele allorché scriveva:

Come gli occhi delle nottole si comportano nei confronti della luce del giorno, così anche l’intelligenza che è nella nostra anima si comporta nei confronti delle cose che, per natura loro, sono le più evidenti di tutte” ( Aristotele, Metafisica, 993h, Rusconi, Milano, 1993, p. 72).

IL MESSAGGIO DELLA NOTTOLA

Io, sorelle e fratelli non-vedenti, sono molto ignorante, ma ho pensato molto a queste cose ed ho persino aperto un blog aporetico dal titolo “Osservatorio sulla scrittura, la letteratura e l’inumano”. Quante cose ci sfuggono! Specialmente in materia di storia naturale. Per esempio non solo non mi accorgo del sorriso del figlio che nasce e della smorfia del vecchio padre che muore, ma non so neanche quando figliano le camozze. Proprio come accadeva a Giobbe, un nostro antenato che dal fondo del letamaio aveva più di un motivo per essere risentito, ma non lo era, non troppo.

E’ una figura molto nota nella Bibbia e della tradizione cristiana come esempio di santità e di pazienza. Capita che nonno Giobbe – uomo "retto, timorato di Dio e alieno dal male" – improvvisamente venga colpito da una lunga serie di disgrazie che lo privano in breve tempo di ogni suo avere, della salute e perfino dei figli. Non si spazientisce, ma fa osservare a Dio quell’assurdità e chiede perché Dio permette che accadano cose del genere… Con il culo a terra – per la verità la Scrittura dice: gettandosi "sulla polvere e sulla cenere" (42, 6) – Giobbe finalmente può udire Dio. ( Cosa che a noi moderni non potrebbe mai accadere, dal momento che più nessuno, oggi – a meno di non essere un pastorello, un contemporaneo dei re magi o un eretico musulmano – ha il coraggio di inchinarsi fino a terra).

Enigmatiche, pur nella loro lapidaria semplicità, e forse ironiche, le parole che Giobbe ode dal fondo della sua angoscia.

Sporgendosi dal bordo del letamaio, san Giobbe, un povero cristo sofferente, presta orecchio all’infinita e imperscrutabile sapienza di Lui, ovvero all’inaudito:

Sai tu quando figliano le camozze

e assisti al parto delle cerve ?

Conti tu i mesi della loro gravidanza

e sai tu quando devono figliare?

Si curvano e depongono i figli,

metton fine alle loro doglie.

Robusti sono i loro figli

( Giobbe, XXXIX, 1- 4)

Certo che Jahvé, Dio originario dei nostri fratelli maggiori ebrei, “colui che sarà presente dove e quando lo vorrà e rimarrà assente dove e quando lo vorrà,” sembra moralmente inferiore all’uomo-Giobbe. E anche un po’ diverso, nella sua arbitraria indifferenza al dolore di Giobbe, dal Dio dei cristiani, ovvero dalla gloria del Creatore dell’universo nascosta nella povertà di un inerme Bambino avvolto in fasce e deposto in una greppia. Nella sua onnipotenza e assoluta trascendenza – nota Jung in Risposta a Giobbe – a Jahvé non importa nulla della sofferenza umana”. E così vediamo Giobbe impegnato, con pazienza, nel rivelare a Dio l’incoerenza rispetto al suo dover essere Verità e Giustizia. Vediamo Giobbe impegnato nella sua battaglia con l’Insondabile.

Un “insondabile” che è il lato ombra della divinità e la nostra opacità verso il lato oscuro in noi stessi, ovvero l’indifferenza, onnipresente nella nostra cultura, alle sofferenze che ci circondano. Un vero e proprio peccato di omissione, ma anche di eccesso di zelo, eccetera.

Ad ogni modo – forse perché dimentiche di Giobbe e della pazienza di Giobbe nel doversi accollare e sorbire, in quelle condizioni, pure la storia delle camozze – oggi sempre più numerose persone reagiscono ad ogni minima avversità come mucchietti di spazzatura piagnucolante: “Perché la vita è imputridita? Chi ha imputridito persino l’idea di vita? ”. Una sordità risentita e una cecità ampia e articolata, il dito della nottola sempre puntato unilateralmente verso il “colpevole” di turno, danno l’impressione, o piuttosto la concreta percezione che qualcosa dev’essere andato storto nell’Universo o Multiverso.

LA SOLITUDINE DELLA VITA

A poco a poco – scrive Dino Buzzati ne Il deserto dei tartari – la fiducia si affievoliva. Difficile è credere in una cosa quando si è soli, e non se ne può parlare con alcuno. Proprio in quel tempo Drogo si accorse come gli uomini, per quanto possano volersi bene, rimangano sempre lontani; che se uno soffre, il dolore è completamente suo, nessun altro può prenderne su di sé una minima parte; che se uno soffre, gli altri per questo non sentono male, anche se l’amore è grande, e questo provoca la solitudine della vita”.

Solitudine. Come se non sapessimo tutti cosa questa parola significa. Ma a nessuno basta morire da lontano, forse nemmeno a un Dio. E’ come quando quel povero sul letto di morte dice a madre Teresa: “ Come soffro !”. E la buona madre fa: “ E’ la carezza di Gesù!”. E il povero: “ Non potrebbe dirgli di non carezzarmi più ?”. Mah ! Pare che per esercitarsi al suo più alto grado la carità abbia bisogno dei lebbrosi di Calcutta…

D’altra parte, oltre a somministrarle un analgesico, cos’altro poteva dire una povera suora alla carne prudente, impaurita e che muore? E’ difficile, quasi impossibile ( malgrado gli accomodamenti di superficie) dare un significato o un senso alla solitudine, alla vecchiaia, alla malattia o alla morte.

Specialmente alla morte, questo “modesto ruscello a lungo calunniato”, davanti al quale anche l’uomo più intelligente e lampadato è come un povero scemo. Ma che se morte condivisa con un Dio crocifisso-risorto acquista un qualche significato, apre a un orizzonte ulteriore, predispone a una nuova libertà : quella di essere liberi non solo per la morte, come decisamente voleva Heiddeger, ma anche essere liberi per l’aldilà della morte. E nel frattempo vivere e far vivere.

Non bisogna aver paura, occorre essere intrepidi. Eppure l’elenco delle ricadute nelle disperazioni, anche “di massa”, sembra infinito. I poveri in spirito, per esempio, non sembrano più in grado di raggiungere, senza fretta, il regno dei cieli. Questi sembra ormai diventato il pascolo dei violenti, degli impazienti e dei semplicioni che vorrebbero risparmiarsi ogni lavoro e la fatica della vita, e non vedono l’ora di godere subito in paradiso: a corto circuito, annullando i dubbi e le tensioni con un po’ o molta polverina, oppure esplodendo direttamente nella gnocca delle urì.

IL PARADISO DEI SEMPLICIONI

Credevamo che questo secolo fosse ormai stufo del paradiso, e che si sarebbe accontentato di un po’ di conoscenza, invece è proprio il desiderio del paradiso che ritorna, causando non pochi inferni sulla terra… Certo, in nome di un Dio arcaico e celibe che che non è il padre, ma un Onnipotente murato in una solitudine perenne e però proprietario di numerosi paradisi aperti come ricompensa ai suoi devoti, si possono chiedere agli uomini dei sacrifici, anche umani. Lo facevano gli adoratori del dio Moloch e , su larga scala, gli Aztechi, i nazisti ante-litteram della Mesoamerica. Ma occorre anche, se non li si disprezza, avvertire gli uomini che il sacrificio non comporta l’odio per la vita e l’assassinio dei vicini, e che ogni sacrificio è rischio; e, per chi lo mette in opera, senza compenso. Specialmente se è un brutto sacrificio, un’ “operazione martirio” o shahada nella quale non c’è il paradiso ma il cattivo godimento del terrore nell’aldiqua e nell’aldilà, cioè l’inferno.

Manipolando il semplicione “nel nome di Al-lah” e condizionandolo con un entusiasmante, confuso e oscuro vocabolario religioso, la bestialità dell’islam politico ha “montato” un corto circuito tra vita e morte, e nel punto intenso e feroce in cui la vita va al di là ha semplificato il transito all’uomo-bomba – scelto, nella maggior parte dei casi, fra i più idioti tra i “fratelli” semplicioni.

GLI ADORATORI DEL CUBO

D’altra parte, fra i poveri in spirito e il regno dei cieli noi abbiamo invece costruito con tanta ingegnosità ogni sorta di baluardo possibile: sociologismo e materialismo dialettico, linguistica, storicismo, sindacalismo, guardiani dei bisogni della “gente”, psicologhe diplomate, preti con la chitarra, sacerdoti col sombrero arcobaleno, frati con la kefiah, eccetera. Tutto questo è stato messo in opera dagli adoratori del cubo per proibire ai poveri in spirito ogni sguardo e ogni significato aldilà.

Accade specialmente all’Europa evoluta, ma ricaduta al di qua come troppo vecchia e fragile per portare i suoi balconi, le grandi e belle cattedrali, i suoi roveti ardenti e il suo peso aldilà. Accade a un’ Europa non solo vecchia e fragile, cinica, satolla, infingarda, eticamente impigrita ed annoiata, ma anche diventata – come per improvvisa amnesia – una terra di negretti con la kefiah, di indios col machete e di semplicioni quasi islamizzati che giganteggiano in una loro fede nell’Uno, pur restando piuttosto nani nel lavoro della vita, nella speranza e nella carità.

Quando il Semplicione pretende il paradiso e salta su è molto difficile arrestarlo… Sarà molto difficile, quasi impossibile, non dico cristianizzare un’Europa del genere, ma trovarvi ancora qualche esemplare autentico di povero in spirito, in luogo del semplicione abituato al tutto e subito, un razziatore avviatosi ormai a diventare maggioranza. Da una parte una maggioranza di distruttori inveterati, e dall’altra i sognatori della pace perpetua kantiana, su un pianeta che si restringe come un blue jeans o un caftano troppe volte rilavato…

Sono miriadi, miliardi di giovani lunatici verdeggianti, a un tempo esaltanti e oppressivi… Eccoli che arrivano: sbarcando, brancolando, aggredendo, esplodendo, ricordandoci il fetore delle loro e delle nostre storie marciano, ancora una volta, alla luce del grande sole mentitore dell’Europa… una vera afflizione, si credono tutti innocenti, destinati al paradiso perché servi di un Onnipotente che non può essere moderato da alcunché, che Dio ci assista tutti.

LE DISPERAZIONI

Ma gli afflitti, sono stati forse consolati? Continuano a morire, come mosche, davanti alle porte e ai portoni chiusi. Anche per ferie. Magari le ferie di Natale.

Il fatto è che specialmente durante le feste anche il nonno ingombra, e forte è la tendenza ad ottimizzare i nuovi bisogni della gente, come per esempio il bisogno di fare la festa non solo all’embrione ma anche a nonno Giobbe, offrendogli in regalo – con in testa un berretto da Babbo Natale – una buona eutanasia. ( A proposito di nonno Giobbe. Se fossi un ebreo mi fiderei poco di alcuni cristiani cristianisti e , ahimè, di taluni francescani cinguettanti… ). Per non dire del neonato figlio, che per i sopraggiunti bisogni della donna o le incombenti ferie e le meravigliose crociere di sogno immaginarie che ci attendono dopo lo Tsunami, si pensa opportunamente di scambiare con il cane infiocchettato giù in garage.

Né sembrano sazi, se non beati, coloro che continuano a entrare e a uscire dai tribunali dopo essersi accannati e scannati in corso di divorzio per dividersi un frullaculo, con sempre maggior fame e sete di giustizia.

E i misericordiosi, trovano forse misericordia? Non pochi misericordiosi ed operatori di pace in Medioriente, nel Sudest asiatico e in Africa vengono rapiti e sgozzati in mondovisione, all’ora di cena; e in Cina, con maggior discrezione, eliminati con un colpo al silenziatore. Senza misericordia, purché il commercio non ne soffra.

Credevo, un tempo, di appartenere all’ultima generazione civilizzata del pianeta – un Pianeta fresco, appunto, non frescone – e che noi avremmo messo fine alle guerre, all’ingiustizia e alla miseria. Chissà chi ci aveva messo in testa quelle strane idee, forse Topolino, Fernanda Pivano,Mondo Beat.

Quanto alla purezza di cuore, altro che vedere Dio! Siamo riusciti a discreditare non solo le virtù ma persino i vizi. Da quando nei vizi non viene percepito più alcun dramma e quindi neanche, in qualche modo, la presenza della verità, le perversioni ( oggi ridotte a poche “parafilie” sindacalizzate ) sono spettacoli domenicali a cui assistere in famiglia, ma sul mercato se ne trovano anche in formato ottimale per i sempre più numerosi single.

Insomma, sembra che ci sia ben poco di cui esultare, essere grati o rallegrarsi. Si rallegri chi può. Proprio come sempre. Gratitudine verso “chi” ? Le apparenze di questo mondo sono talvolta disperanti.

E’ come “un continuo mal di mare in terra ferma…” ( Kafka).

E ancora: Tempo e Spazio sono forse una risposta?

Quanti misteri! Troppi enigmi sulla terra opprimono l’uomo. Scioglili, se puoi, e torna salvo alla riva” ( Dostojevskji) .

CANNE PENSANTI

E’ dunque qui , tra “ le stelle di Dio e gli abissi dell’Accusatore”, che oscillano le “canne pensanti” ; e i viandanti – ancorché citazionisti non più capaci di devozione, di gratitudine, di abbandono e di trasfigurazione o di samadhi – restano nondimeno piegati da lontano ai gomiti e ai ginocchi come tanti evanescenti punti di domanda: ???

Avendo rinunciato al presepe e a una cosiddetta “illusione” religiosa, eccoci ora servi di un “misto” d’illusioni. Diventati europei erranti e disponibili, sempre in partenza “un attimino”, siamo disposti a tendere la mano e a prendere da tutte le mangiatoie d’oriente e d’occidente.

A tale proposito, occorrerebbe ricordarsi di Nietzsche, che non è un mio maestro ma il pensatore moderno del deserto. La mangiatoia nicciana, ovvero il luogo da cui attingere una qualche vitamina per nutrire la “ragione che cerca”, si trova in direzione di ciò che oggi capita nel cristianesimo e soprattutto nell’Islam tradizionale decomposto e ricomposto ad uso dei semplicioni nei termini del teo-nazi-islam, anche scientista, che oggi occupa e insaguina la scena:

Oggi sappiamo che la distruzione di un’illusione non crea subito una verità, ma un nuovo frammento d’ignoranza, un’espansione del nostro ‘spazio vuoto’ , una crescita del nostro deserto.”

E’ in tale ‘spazio vuoto” che avendo rinunciato ai dèmoni del Novecento, non pochi della mia generazione hanno poi cominciato a riempire il buco e il vuoto come fresca traccia, e ad affliggere il mondo chi con la venerazione di un Rasullah d’importazione e chi con la credenza in una pletora di Angeli new age. Per non dire di quelli che, puntualmente, si sono innamorati dell’uomo sbagliato: di Mao, Che Guevara, Arafat, Khomeini, e oggi addirittura di sceicco Nasrallah – il leader di Hezbollah il “Partito di Dio” o più probabilmente del Diavolo.

In realtà ( che terribile espressione!) eccoci chi più e chi meno nella Nebulosa, se non proprio sull’orlo del cratere, della fossa o della “tomba vuota”. Oltre i tarocchi, la fantascienza, gli oroscopi e la cristalloterapia, a sporgerci sulla Via Lattea e a tendere le mani verso l’inafferrabile…in un giro senza fine di travestimenti multipli.

Di notte noi danziamo in tondo e

Siamo divorati dal fuoco.

Ci svegliamo sbigottiti e cerchiamo

A tentoni la vita.

Bene, se avete qualcosa per illuminarci…

Avevo creduto – dice l’Accusatore – di poter ardere senza bruciare”.

Sembrava impossibile. Ma ecco ancora le campane, le sirene, il rauco appello del muezzin e le ambulanze – fra l’andirivieni dei guardiani dei bisogni, l’esagitato gestire dei moralisti diplomati e l’abbaiare dei cani del quartiere . Proprio come sempre. Le apparenze di questo mondo sono, ancora una volta, disperanti.

Ma proprio qui dove il pensiero fabbrica abissi, un “cuore” semplicemente li scavalca !

NON CORRERE DOVE PORTA IL CUORE

Il dolore comune alla propria e all’altrui vita è al sorgere dell’autocoscienza e della formazione – tra dolore e sapere – di un autentico soggetto umano, per non dire civilizzato. Ma poi dicono “speranza” in gergo canagliesco, perché spesso la celebre speranza si dà come una forma di cinismo tipicamente cristiana, medio-cristiana; ed è tenace, questa speranza, come le erbacce dei cimiteri…

Quello che chiamano “speranza” spesso non è che una mezza-speranza. D’altra parte, perché chiamarla “erbaccia” solo perché forse non se ne conoscono ancora le virtù ? Cosa che non significa riporre la propria fede nella fitoterapia.

Quanto alla carità, non sempre è così pelosa.

Chi non vorrebbe essere accolto come vuole il cuore ? Tuttavia non correre dove porta il cuore. Non a rottadicollo, perlomeno… si potrebbe fare una fine balorda comunque, e anche finire all’ospedale:

" Una cosa è certa, non ha un bell’aspetto".

" Un lurido casino".

" Be’, lo ricucia, infermiera, è inoperabile".

" Le pinze, infermiera, sta sanguinando come un porco".

"Prepari il paziente per un’iniezione al cuore".

" Pago da bere a tutti se non muore sul tavolo".

Speriamo di no, che non mi crepi qui proprio durante le ferie… consideratemi in vacanza, dovrei andare ‘un attimino’ alle Seichelles… ”. ( W. Burroughs, Terre occidentali, con qualche variante o cut up).

Se mai c’è stata una crisi, meglio credere che essa è superata. La vita è bella, lo dice Benigni, i pericoli sono remoti, la sicurezza, perlomeno per quanto ci riguarda da vicino, sembra essere adeguata … La realtà può essere trattata come se fosse un sogno, talvolta un incubo, nient’altro che un brutto sogno, il sonno è invitante.

E’ solo il risveglio che comporta qualche problema, allora si fanno i dibattiti, perché esistono solo i dibattiti, non i problemi.

Avete qualcosa per illuminarci? Qui in corsia, dove ogni luce è spenta, eccetto qualche azzurrognolo lumicino “laggiù”, non c’è nessuna cima su cui piantare una tua sporca bandierina… Anche perché la verità, così come anche il famoso arcobaleno, è nel cuore, ma non del cuore.

GLI EQUIVOCI DELL’ “INTERIORITA’”

Ma cosa vuole questa aurora, e quell’altra detta notte…Giostre finalmente scavalcate, per vette o baratri ritornavi a te stesso.

E senza correre, non troppo, rileggevi Sant’Agostino, sulla traccia della celeberrima formula: “ noli foras ire , in teipsum redi; in interiore homini habitat veritas…”.

Ma la “creatività” – come si dice con termine banale, se non banalizzato – spesso non è che patologia. L’interiorità, che oggi chiamiamo coscienza o che diciamo, per tranqullità, l’Inconscio, più che affiorare come qualcosa di rizomatico e desiderante, spesso è una zona opaca, addirittura meschina e polipesca. Vi staziona come un rifiuto dell’autorità, un voler negare all’altro ogni sapere sul bene, ovvero una forma d’odio tipica dei nostri tempi.

La ragione, dunque, non crea nulla. E l’interiorità, che è solo il luogo del possibile affiorare di una verità che non si dà mai d’un sol blocco, ma per prove, errori, verifiche e il lavoro della notte, non coincide con essa.

Occorre che qualcosa o qualcuno, dal di fuori o come alla radice stessa della ragione che cerca, la illumini.

UNA VAGA INQUIETUDINE

Insomma, non credo di avere il diritto di dire che tutto questo è senza speranza, e che finiremo tutti nel solito mare di pus gas ori & vapori. Allora perché in tutti , o quasi tutti, prima o poi affiora, persino in sogno, una stella: una cosa ardente e come proveniente da molto lontano, che bisogna dire, assolutamente dire, un attimo prima della morte; oppure dimenticare, lasciar seccare al sole, ai raggi del sole mentitore, insieme a tutte quelle lacrime sparse, senza che nessuno vedesse o udisse, sul cuscino della più oscura delle notti ?

Forse più che vero e proprio risentimento o mancanza di gratitudine è solo una vaga inquietudine, una leggera e piuttosto soggettiva curvatura di psiche – dovuta anche al fatto che ormai l’immagine del mondo ci è offerta dai piagnoni, i croquemorts e i terroristi, i nuovi profeti di sventura.

Di questi tempi troppa gente va in giro a vendere paura: paura dell’aria inquinata e dei miasmi che da ogni parte ci compenetrano, paura per la morte nelle strade e nel metro per attacchi terroristici, paura per le tante minacce ubuquitarie e diffuse: minacce politiche, economiche, ecologiche, fondamentaliste, atomiche. Per non dire della paura dei nuovi virus dal nome sibilante come l’Aids che avvelenano i piaceri del sesso e dell’amore; o di quelli influenzali, detti virus dell’influenza aviaria: minuscoli killer che volano da oriente verso occidente sulle alli delle oche. E ci vendono la paura dei pidocchi nelle scuole e delle zecche nei treni, la paura del grasso, dello sporco, dell’unto che dà a ogni cosa l’aspetto di vecchio ascensore regredito.

I venditori di paura vogliono indurci a chiedere scusa? Anche. Ma soprattutto vogliono che compriamo la spruzzatina di qualche ultimo ritrovato della tecnica per rimediare all’odore di tante cose andate a male. Ma il corpo, il caro corpo, è un orologio che non si può aggiustare.

Tuttavia non è la religione a instillare nell’uomo il celebre “senso di colpa”. Questo esisteva da ben prima che ci fossero le religioni , ed era l’anima ferita dall’amore e dal dolore per tutte le cose che nascono, muiono e banalmente si consumano.

Il mercato ci renderà tutti innocenti? Eppure quante cose putrefatte, splendidamente decomposte, circonfuse da quel loro tipico sex-appeal spettrale, ovvero il celeberrimo alone arcobaleno !

Se oggi l’immagine del mondo è offerta dai terroristi, allora scrivere serve a ben poco. Non ditemi, come Benigni, che la poesia è una via d’uscita.

Ne’ potrebbe esserlo l’innocenza, dal momento che essa è ancora più antica e criminale della colpa.

GRANDISSIMI VENTI

Tutto ciò , ovvero una storia di piccole ferite, anche narcisistiche, volendo, e del loro accumulo che si trasforma in un turbine imprevedibile e feroce, stringe il cuore. E vi apre qualche buco, un buchino dal quale – con l’andar del tempo e la perdita del senso dell’immunità fisica, della salute a tutta prova e della speranza di poter vivere e far vivere in un mondo di tranquillità mentale e fisica – potrebbe anche cominciare a soffiare un qualche vento terribile, sentimentale, capace di spezzare aghi d’acciaio. E di saltare tempo, spazio e continenti, portando una predica, per esempio, del beato Giovanni Dominici venuto direttamente dal Quattrocento:

Va o uomo d’altura, quando vaneggi nella mente tua, e considera la viltà della sepoltura. Va garzone, giovane altiero e senza freno, quando t’allegri co’ compagni, e vai in briga sanza temperanza, seguitando i voleri: e poni mente ai sepolcri pieni di bruttura e puzzolente lordura. Va, donna svaliata e leggiadra, quando ti diletti d’essere guatata e giovati di essere pregiata e tenuta bella: sguarda nelle fosse de’ cimiteri le carni verminose e fracide (…). Andiamo tutti quanti a vedere, se mai fu pelle verminosa di can fracido e gittato nelle fosse: se si sentì si fastidioso puzzo di carogna…”. (Dominici G. Beato: Regola del governo di cura familiare. Pref. di P. Bargellini. Firenze, Lib.editrice Fiorentina, 1927; G. Dominici, Regola del governo di cura famigliare, Ed. D. Salve, Firenze 1860; cit.da Storia d’Italia vol. 2, Einaudi/Il Sole 24 Ore, Milano 2005 , p. 846).

Puzzo di carogna” ? Esistono non poche brutte parole che occorrebbe togliere dal nostro vocabolario, parole che rischiano di farci sentire tutti stupidi, brutti e depressi come quando s’indossa un vecchio cappotto. Tuttavia non sono le parole a sollevare il turbine e a fare la guerra, ma la Morte. E la traccia di un tale vento terribile, sentimentale, nato da un egoismo spietato e privo di freni , la ritrovo in alcuni versi di S. J. Perse, li avete sotto gli occhi:

Erano grandissimi venti su ogni faccia di questo mondo.

Grandissimi venti in allegria per il mondo senza direzione e senza dimora.

Senza freni e senza misura , e che ci lasciavano uomini di paglia.

Nell’anno di paglia, sulla loro scia… Ah, si! Grandissimi venti sul volto di ogni vivente…

( S.J. Perse, “Venti”, citato da G. Charpak – R. Omnès, in Siate saggi, diventate profeti, Codice edizione, Torino, 2004, p. 20. – Grazie all’amico Arch. Amedeo Strada per la puntuale segnalazione).

 

UNA “DISPERAZIONE DI MASSA”

Certi venti possono giungere da luoghi imprevisti. Di questi tempi possono anche somigliare a un inno jihadista cantato con il cuore ( anche il cuore di qualche “nemico”) in mano. Certi venti possono sembrare una canzone araba di Oum Kaltoum oppure di Farid Alatrache, il Gino Latilla egiziano… Sembrano venti del deserto…

Mentre il nostro vento occidentale è quello che si rallegra del nulla che nullifica, la declinazione del vento arabo è nostalgico, pieno, traboccante di fede e piuttosto regressivo. Non si tratta tanto del vento di una religione nel senso latino del termine ( religio), quanto di ciò che si dice islam din, ovvero letteralmente “debito” (din). Tale debito di sottomissione, oggi presentato al mondo con crudeli esazioni, sarebbe stato contratto fin dalla pre-eternità con il “Proprietario dei mondi”, esattore di una sottomissione infinita. Non ci sarebbe, dice il vento dell’islam din , alcun rapporto di reciprocità fra l’Essere e la creatura umana, ma l’abisso delle proprietà.

Qui la riconoscenza verso l’azione del Creatore nel tempo e il timor di Dio si tingono della paura arcaica verso il Signore, al quale le creature sarebbero legate unicamente da un debito solo perché è il più grande e il più forte. Come si dice in arabo ? “ Bacia la mano che non puoi mordere”.

A queste condizioni islamiche la creatura umana non è che un povero orfanello, l’ombra debitrice del Creatore. E il mondo è un luogo che non suscita interesse, curiosità, meraviglia, e non richiede neanche lavoro e amore per il lavoro ben fatto, perché tanto, tutto viene dal Creditore quando vuole e dove vuole insciallah in un mondo votato alla distruzione, luogo di passaggio, “cavalcatura per l’aldilà”, come dicono gli Arabi.

Per diventare autentici soggetti umani occorrerebbe un dio che riconosca la sconfitta ed abbia il coraggio di riprendere se stesso e di essere tenero; un dio formulato in modo nuovo, che pur non abolendo la vecchia Legge, introduca nella storia la novità dello spirito ed apra a un reale più largo per tutti.

Chi non ha un debito verso gli altri e verso l’Altro ? “ Non abbiate altro debito che amarvi scambievolmente  ( Rom. 13, 8). “Chiunque ricorda il proprio debito e l’esortazione dell’Apostolo – osserva sant’Agostino ne I discorsi – deve costringersi a restituire. In verità, per quanto sia grande lo spavento che incombe sui debitori per il timore degli esattori, moltissimo di più esige la carità, che libera la riscossione dal peso del timore e impone quello più grande della modestia.”

Nell’ottica cristiana, il destino umano è partecipare alla vita di Dio. Per i cristiani la via non è solo una Legge, ma una Persona che indica la via dell’amore. Credo che questo sia, perlomeno storicamente, il nostro Dio – quello che sarebbe morto il secolo scorso, quando invece muore ( e risorge) ad ogni istante. Solo un Dio vivo sarebbe capace non solo di contraddirsi ma anche di diventare uomo. Non a caso è proprio una tale riuscita e il superamento della paura arcaica della terribilità della vita e del divino che è nella caducità e nella fragile gioia della vita, a provocare il risentimento dei maomettani, come se il timor di Dio temperato da una maggiore fiducia nell’uomo e nel divino fosse non il frutto del lavoro di generazioni ma la biasimevole vanità per cui gli occidentali credono di contare maggiormente davanti a Dio che osano chiamare Padre ( abba).

L’intera spiritualità dell’islam si basa invece sulla separazione radicale fra l’Uno che è l’Essere ingenerato, saturo, radicalmente altro da tutto, e le creature fissurate, ombre piegate ai gomiti e ai ginocchi, alle quali è richiesta la sottomissione alla Legge e il pagamento del debito di adorazione del Creatore in cambio della ricompensa nell’Aldilà. In questo, assomiglia un po’ a certe correnti eretiche del cristianesimo dei primi secoli, per le quali il Verbo è creato non generato.

Insomma nell’islam, così come nel nichilismo post-moderno, non esiste alcuna teologia della sconfitta né della redenzione dell’uomo e del creato. Direi che gigantesco nella fede nell’Uno, l’islam – alieno dalle pluridealizzazioni plastiche, oltre che dalla speranza e dalla carità – sia la ricaduta in un vero e proprio deserto genealogico. Ovvero la ricaduta dalla generazione alla creazione, dal rapporto al comando, dal Dio padre al Dio padrone. La ricaduta, se non in altri termini la regressione, della vita psichica come dialogo alla vita psichica soggetta al dominio arbitrario del più forte. Come se il tempo, uscendo fuori dai cardini, avesse spazzato via secoli di ellenismo e di teologia ebraica e cristiana, insieme alla “teologia laica” dei Cartesio, Spinoza, Leibniz, Hobbes, Newton, Vico e tanti altri – che hanno riconosciuto all’uomo il compito di “trasformare dio” ( Jung) e prodotto niente di meno che la scienza moderna, se non la modernità.

Cos’è dunque l’islam? Sul piano dello sviluppo storico, per Hegel era una formidabile macchina da guerra, che doveva la celerità con la quale divenne “un impero universale”( frapponendosi peraltro anche con la spada fra l’occidente e l’oriente, ed impedendo un loro ricongiungimento ) “all’elevato grado di astrazione del suo principio”. Nel suo libro I sette pilastri della saggezza, Thomas Edward Lawrence, detto Lawrence d’Arabia , qualificò la regione in cui sono nati il Corano e l’Islam come “ una ghiacciaia spirituale dove si conserva in eterno, pura da ogni contatto ma anche da ogni miglioramento, l’Idea dell’unità divina”.

Un’Idea dai tratti astratti e spesso violenti, se non crudeli, dal momento che l’islam militante vuole applicare pragmaticamente tale Idea all’universo mondo. La crudeltà, osservava Artaud, consiste nell’applicazione pratica di un’Idea. Per sempre più numerosi fedeli fissi e contratti, per moltitudini semi-acculturate fra le quali non ci sono solo poveri e marginali fra gli estremisti, ma anche semi-letterati, medici, ingegneri, manager confrontati, senza ponti ermeneutici e culturali, con il vento dissolvitore ma anche innovatore e liberatore della modernità, credere in un Dio “ padrone dei mondi”, cioè in una specie di Saddam Hussein cosmico, potrebbe essere molto più semplice che meditare sul concetto di trinità ed accogliere il rinfrescante e dialettico mistero della Trinità, luminoso dialogo d’amore fra tre Persone.

LA BAMBINA ICONOCLASTA

Nel rifiuto della complessità, considerata dall’islam una forma di politeismo, si annida, ancora una volta, la tirannia e la pretesa di acquisire la modernità “chiavi in mano”. Mancano infatti i ponti, ermeneutici e più generalmente culturali, per attraversare il tempo della mutazione accellerata introdotta dal grande vento dissolvitore della modernità.

Niente di più alieno dalla credenza, dalla dottrina e dalla mentalità musulmane di un Dio trinitario, cioè di una comunità d’amore e non un Ente dai tratti astratti e violenti fuso in un sol blocco e come murato in una solitudine perenne , un narcisismo quasi psicotico. Niente di più estraneo di un Dio che non solo invece è diventato uomo, ma che possa anche, nonostante la sua onnipotenza, far figura addirittura di “ cadaverino”, come polemicamente ha rimproverato qualche musulmano, un converso italiano, chiedendo che i crocifissi venissero tolti dalle scuole italiane per non turbare la bambina neo-musulmana.

Bambina iconoclasta peraltro già schifata dalla presenza di altri bambini non-musulmani che osano fare il presepe “con le figurine” o mangiare pane e mortadella in sua presenza. Il maiale, così come anche il vino e, in una certa misura il non-musulmano, sono haram, “impuri”. Per non dire dei turbamenti provocati in quegli innocenti dalla “democrazia che vorrebbe governare al posto di Al-lah”, come dice lo zio barbuto, formato nella sua mentalità e reclamando scuole separate per evitare alla “migliore delle comunità” ogni “contaminazione” con l “impuro” kafir che l’ospita.

Il barbuto è essenzialmente, prima che in taluni casi un potenziale terrorista, un maleducato. Tanto più che queste censure invocate dal barbuto sono qualcosa che le famiglie musulmane provenienti dal mondo islamico non chiederebbero affatto se non fossero tormentate, istigate e spaventate dai barbuti dalla voce dura.

La decadenza dell’islam, così come anche la colonizzazione, è vero, fu anche provocata dall’arretratezza tecnica delle nazioni islamiche. L’Islam non è una civiltà della tecnica e la modernità nasce anche da un disincanto, da un utilitarismo e un nichilismo incomprensibili allo zio barbuto. Era abituato a sonnecchiare sotto le stelle di un Cosmo che non c’è più. E il tempo e la storia sono passati senza che egli se ne accorgesse, quasi complottando alle sue spalle. La modernità sembra impossibile da capire, elaborare e attraversare. A queste condizioni, pare che sia l’islam come din ( religione del debito) sia l’ Islam come civiltà e insieme di varie culture tradizionali al contatto con la modernità, non possa che virare al disastro.

Non avendo, di fatto, né vinto né trionfato, ora l’Islam regredisce nostalgicamente verso le dorate leggende delle Medine sempre vittoriose, delle Baghdad che avrebbero inventato tutte le arti e le scienze, e delle Andalusie perdute ( a causa dei complotti, dicono e ripetono, del “mondo dell’arroganza”). E pretende la modernità chiavi in mano ( anche per mettere a punto l’atomica islamica) ; e si dispera se la comunità internazionale ha qualche buona ragione per non volergli mettergli in mano il bastone più grosso, e si offende pure se gli si dice la verità perché non lo si disprezza.

Si tratta di un’impressione e di un giudizio che andrebbero puntualmente verificati, ma a leggere nei testi del fondamentalismo islamico la struggente lode di un passato vittorioso, di una mitica età dell’oro cui quasi non si sappia spiegare la scomparsa se non in termini di infedeltà dei musulmani stessi e complotto ordito dagli “infedeli” per far regredire la “migliore delle comunità” all’epoca dell’ante-islam, ovvero dell’ignoranza della Legge di Al-lah, viene da pensare che se non cambia una tale arcaica mentalità avremo a che fare, per lunghi anni a venire, con lunatici creditori e crudeli esattori colmi di risentimento.

Tutti i venti provengono dal cuore, da qualche piccola ferita, storica e anche narcisistica, volendo: è solo il loro accumulo in un soggetto così come nelle multitudini che potrebbe convincerci di una qualche gravità. E’ quel che chiamo – sulla traccia dello psicoanalista tunisino Fethi Benslama – “disperazione di massa”.

LO SVELAMENTO DELL’OCCIDENTE

All’ascolto del furore di quel vento, cerco di nominarne la disperazione e di analizzarne qualche figura che assume forma di ciclone… e sembra affiorare da linee di frattura e brecce di barbarie… e sembra voler riportare il mondo indietro…come se il tempo fosse uscito fuori dai suoi cardini…

Chissà quanto tempo durerà, forse per lunghi anni a venire, dal momento che questo sembra non essere che l’inizio… Posso però dire con massima sicurezza e buona pace dei non vedenti che c’incombe un dovere d’inquietudine e di non sottomissione all’attuale, e che se qualcosa ci opprime occorre ribellarsi, va da sé, e cercare i modi concreti dell’aiuto reciproco.

E’ un caso di emergenza planetaria, non solo personale. Infatti qui c’è qualcosa di deleterio e di malsano all’orizzonte: come un risentimento lungamente covato, una vendetta, una ritorsione, un’invidia, uno spirito di rivalsa, un odio genocidario in movimento planetario, insieme al grido di qualcosa che tramonta per l’imprevisto sopraggiungere del vento del deserto.

Sembra il grido di qualcosa che tramonta e che nel suo declino e quasi l’estinzione di una stirpe ( quella che si diceva cristiana ? ) tuttavia resiste alla tentazione di raggiungere l’orizzontalità e la femminilità assoluta della specie, vale a dire il rischio mortale che è nell’inerzia e nell’accoglienza radicale di non importa chi, che cosa, quale crudele esazione o quale vento.

Forse l’islamizzazione è il grido e il destino dell’Europa, il cui mitema identitario è quello di essere femmina. Le ultime pagine di Tristi tropici di Claude Lèvi Strauss costituiscono forse la formulazione più limpida del mitema nel quale, in quanto europei erranti, accoglienti, quasi estinti e disponibili, siamo implicati:

Oggi, è per al di sopra dell’Islam che contemplo l’India; ma quella del Buddha, prima di Maometto che, per me europeo e perché europeo, si erge tra la nostra riflessione e dottrine che vi sono le più prossime, come il rustico ostacolo che impedisce una ronda in cui le mani, predestinate a congiungersi, dell’Oriente e dell’Occidente sono state da lui disunite. (…). Che l’Occidente risalga alle sorgenti del suo strazio : interponendosi tra il buddhismo e il cristianesimo, l’Islam ci ha islamizzati, quando l’Occidente si è lasciato portare dalle crociate a opporsi ad esso e dunque ad assomigliargli, piuttosto che prestarsi – se l’Islam non fosse mai esistito – a questa lenta osmosi con il buddhismo che ci avrebbe maggiormente cristianizzati, e in un senso tanto più cristiano che noi saremmo risaliti al di qua del cristianesimo stesso. E’ allora che l’Occidente ha perso la sua chance di restare femmina.”

L’Islam viene quindi vissuto come il velo di un Occidente nell’impossibilità di raggiungere il proprio Oriente estremo, e fermare quindi il cerchio dell’identità dell’identità e della differenza. L’altro, il semplicione in piena crisi d’identità e di rivalità mimetica che s’interpone come sventura, come sviamento, come maschio che taglia la femmina Europa da se stessa, è così che il mito antropologico occidentale vive l’Islam – un Islam che peraltro sembra fare di tutto per conformarsi mimeticamente a tale mito antropologico, e che è dalla propria femminilità originaria che ha tentato di tagliarsi.

Siamo dunque all’epoca dello svelamento dell’Occidente?”, chiede lo psicoanalista Fethi Benslama commentando il grido del mitologo che mitifica, piangendo un Occidente impossibilitato a raggiungere il suo Oriente e a chiudere il cerchio di un’identità che è invece in continuo divenire e catastrofica mutazione…

 Resistere alla tentazione di saltare sul tavolo e intonare un “ Mammaaa!”, senza ritegno, con polmoni d’acciaio. Occorre non prestare orecchio né alle Sirene identitarie né a quei fedeli ad oltranza che, con occhi iniettati di sangue, gridano troppo forte Morte Morte Morte alle orecchie del loro Assoluto venuto dal deserto. Occorre ribellarsi a questa oppressione del deserto e non sottomettersi a tutti i venti e al cosiddetto “spirito del tempo”. E rendersi conto che, sotto questo cielo scipito e blu che chiamano Europa, anche l’heideggeriana decisione-risoluta “libera per la morte”, resta semplicemente un isolotto in perdizione, precisamente l’isolotto del declino occidentale. Come il Da del Da-sein , del resto.

UN ALTRO DESIDERIO

Insomma, occorre un altro desiderio più alto e più veloce della morte abituale… De-siderio è ciò che proviene dalle stelle. Potrebbe essere la follia di un Dio, una follia d’amore, un altro sole e un fuoco …. perché no ? Ah, l’amore! Non è forse l’analgesico più potente che ci sia ?

Grazie all’islam potremmo accorgerci di essere, perlomeno storicamente, cristiani. Così, giunto all’ingresso della grotta illuminata, tenendomi un po’ in disparte tra la folla dei pastori, ho pensato e ruminato tutto questo… attraverso e nonostante il nichilismo…

LA LUCE E IL “MEZZO”

Commedie del pensiero…forse. E comunque tra ondate d’illusioni, delusioni… e disillusioni lente, che si fanno nel solco dei sogni, così come di qualche riflessione, punteggiata di lampi… Già, forse perché come tutti gli innamorati, anche chi scrive è afflitto dai lampi…

Ma fra lampi d’immagini e scoppi di segn iche i linguisti ci docono vuoti, i sensi, non solo il pensiero, portavano verso una figura con un cuore…

Insomma, il Bambino, la Madonna, la cavalcata dei re Magi, ancora “immagini” ? A differenza dell’arcaico deserto iconoclasta in cui sono nati il Corano e l’Islam come “ una ghiacciaia spirituale dove si conserva in eterno, pura da ogni contatto ma anche da ogni miglioramento, l’idea dell’unità divina” ( Lawrence d’Arabia), l’ immagine rende testimonianza che “la vita si è fatta visibile” (1Giov. 1,2) ed evidenzia la modernità del cattolicesimo.

Non a caso McLuhan, il profeta della modernità tecnologica , diceva di ritrovare nel cattolicesimo il paradigma della sua scoperta più importante: «il mezzo è il messaggio». E la spiegava così: gli uomini non possono cogliere il "messaggio" se lo separano dalle sue manifestazioni concrete, a cominciare dai dogmi, dai riti, dalla capacità tutta cattolica di amare le cose concrete e le immagini. «La fede è un tipo di percezione, un senso come la vista, l’udito o il tatto ed è tanto reale e concreta quanto i sensi».( Marshall McLuhan, La luce e il mezzo, editore Armando). Qui McLuhan riprende e quasi riecheggia certamente Sant’Agostino, allorché nel De vera religione, nel sottolineare il momento sorgivo della fede, come frutto della benefica azione ( beneficentia) dell’autorità, scrive anche che immerso nelle cose del mondo, l’uomo può essere chiamato alla salvezza solo da qualcosa che possa essere visto, udito, percepito sensibilmente. Proprio allorché le forme corporee allontanano gli uomini dalla verità, una forma sensibile ( e riflessiva, aggiungerei) può di nuovo avvicinarli ad essa, giacché “nel punto ove è caduto, lì ciascuno deve appoggiarsi per rialzarsi”( Vera rel, XXIV, 45).

E’ qui che vittime e carnefici si ricordano della loro prima infanzia ? Il caso, o forse la divina provvidenza, non ti avevano fatto nascere in un deserto, sotto un sole alto nel cielo sempre immobile allo zenith, ma ti avevano abituato alla vista di un rinfrescante e scintillante presepe. E ora ti avvicinavi a quella grotta illuminata, gremita di presenze. Vi giungevi un po’ di traverso, come spintovi da quello stesso strano impulso che pare riporti sempre, puntualmente, gli assassini sul luogo del delitto…

Pensavi e ruminavi tutto questo fino a quando, smettendo finalmente questo abietto desiderio di essere amato, alla vista dello sguardo bambino che sorride con occhi di meraviglia alla brina della notte, ben sapendo l’amarezza che è nel fondo, sarà stato forse per via di quell’incenso che saliva verso le stelle e di tutto quell’oro che brillava, ebbene non sei forse improvvisamente caduto giù di botto, in ginocchio come un appestato in qualche antico quadro?

UNA “LINEA DI FRONTIERA”

Insomma, come quei pesciolini, forse i salmoni, che guidati da un odore, a naso risalgono la corrente per tornare a casa a deporre le loro uova, anche tu tornavi a casa sulla scia dell’invisibile, ambrato e un po’ acre odore dell’incenso… E, scusami se ti prendo un po’ in giro, anche tu, come i salmoni, facevi un uovo, un uovo d’oro ( beh, sì, questo blog è troppo lungo, un lenzuolone, quasi un manifesto…dove avresti voluto parlare del vuoto, di un vuoto non nichilista, ma di un vuoto come fresca traccia… traccia del passaggio del cacciatore e della preda, eccetera).

Lavorando su “una linea di frontiera”, integrando il conflitto esistente fra l’estroverso atteggiamento occidentale e l’introversa posizione orientale, accettavi con piena coscienza e liberamente accoglievi i valori e i sani princìpi cristiani, anzi cattolici. Insomma, volevi “cadere” proprio dove la parola cade… e, per così dire, gli occhi degli occhi si spalancano. Eri vissuto lunghi anni tra i musulmani ed avevi vissuto in India affascinato da miliardi di dèi e di bodhisattva, specialmente da Shiva e dal Buddha ( come se fossero, ingannevolmente, una stessa cultura e uno stesso yoga). E ora, sulla soglia della grotta, come quei contadini che vanno e vengono, anche tu ritornavi al pozzo di casa e vi attingevi un’acqua viva – facendo attenzione che la corda non si spezzi e la brocca non si rompa.

Va’, pesciolino…Non eri portato da un vento terribile, sentimentale, ma da un soffio, un venticello ironico, intenso e gentile che soffiava tra le maglie della rete vuota, e ti suggeriva di chinarti fino a toccare con il capo il fango dove si modella il batterio, l’insetto, l’animale e l’uomo – il fango che alcune stelle, ormai morte, hanno depositato nello spazio miliardi di anni fa.

Occorreva inchinarsi davvero fino a terra, la faccia nell’acqua, nella pozzanghera e la brina della notte. E rialzandosi subito, uscire da quella buca , tendere le mani al Bimbo, come facevano i poeti, i re Magi e i pastorelli, per altro che per prendere…

PREMONIZIONE DELLA CROCE

E così accoglievi, insieme al fango, anche quella figura con un cuore. Un cuore umano, ma anche divino, perché capace di accogliere l’innumerevole esistere.

Chi ti riporta a casa? Una memoria che è anche lingua madre e storia in divenire, aperta all’uomo, all’imprevisto e all’inaudito.

All’inaudito che dice: “ Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” ( Gv, 10,10).

In realtà ( che terribile espressione) fuori dall’Essere, ovvero dal Padre, non si può mai cadere. E allorché si cade è come se si cadesse in maniera naturale ed autentica, allo stesso modo in cui il poeta, Rilke, citato ne La mente estatica di Elvio Fachinelli, scrive: “ cade come a primavera la pioggia cade sulla terra scura”.

Dopo l’offerta di tanti doni, saperlo poi finito al freddo, ancor più nudo su quel palo non dovrebbe lasciare indifferenti i tre re Magi, benché siano degli orientali.

( Solo lui, agnus dei, sa di che legno fosse e se pesava. Già, perché davanti a quello scandaloso legno, la croce, di solito si passa furtivamente, fugacemente; e il primo impulso è quello di fuggire, non pensarci, magari andare a cinema, in qualche discoteca o nel deserto).

Sarà ancora il vento a chiudere le larghe autostrade disperanti clacsonanti e ad aprire il viottolo, se non la porta stretta, del ritorno a casa.

A ben guardare quella figura, il Figlio del Padre non viene per prendere qualcuno o qualcosa, e risorto con un corpo, un’anima e uno spirito, si trova bene tra di noi, nella sua pelle umana.

Egli non è qui, nella fossa: è risorto nel punto esatto e sacro della fenditura di un soggetto. Si potrebbe dire che la sua figura con un cuore nasca da… un “malore”, eppure resta un “valore” universale. Nasce, muore e risorge infatti nel tempo e nell’anima, fra due pulsioni.

Riprendendo tra vita e morte tutto quello che è perso, colui che i cristiani chiamano Gesù Cristo illumina di significato l’oceano della vita e della morte.

Egli non può che essere l’ uomo sano e salvo, un uomo con un futuro, libero per l’aldilà della morte e con il Padre, ma senza fretta e nonostante tutto.

Era un ospite insieme noto e inaspettato. Un ospite interno e anche, paradossalmente, venuto dal di fuori, sceso dalle stelle. Così Gesù veniva dal di fuori , dalla città di Davide, e scendeva dalle stelle come lo sguardo del bambino meravigliato dalla brina della notte. E vive “ancora” in noi e in una storia come se fosse il meglio di noi, anche se s’ignora.

E a noi occidentali ed orientali giunti poi comunque all’ ‘orlo del cratere, della fossa o della tomba vuota, occorre imparare ad attendere, senza aspettare: vivendo e facendo vivere per Cristo presente, certo, nell’Eucarestia, e anche in qualsiasi sano e raro gesto d’intelligenza, raro come qualsiasi altro sano e raro gesto di poesia, di pietà o di compassione.

E ora veniamo alla cavalcata dei re Magi, se non all’ Evoluzione e alla Resurrezione già e non ancora… E mentre qualcuno ( il diavolo, chi altri ? ) riempie i buchi proprio come fa la Morte, dicono “forse” ed esitano i pastori, i magi e persino gli angeli . ..

LA CAVALCATA DEI MAGI

… Ed ecco la stella che avevano visto in Oriente andar loro innanzi, finché, giunta sopra il luogo dove era il bambino, si fermò." (Matteo 2:1-12).

Il mondo esitava, sembrava stabilito in una zona piuttosto opaca e feroce, insensibile, quando in un angolo della Terra , a Betlemme oggi ritornata zona piuttosto opaca e feroce, ai margini dei bastioni della città feroce, in una stalla tutto si fece straordinariamente chiaro e vibrante. Giunta sopra il luogo dove era il bambino, la stella si fermò.

I sapienti dell’Oriente, che possono scivolare ma mai cadere, entrarono nella grotta e videro il bambino sorridere alla brina della notte, più che alla vita stessa, come la s’intende banalmente, comunemente. In quell’attenzione del bambino alla brina e ad ogni più piccola cosa, i re Magi videro la vita e la vividezza della vita, vita d’intensità prodigiosa.

Grati allora adorarono il bambino ed offrirono l’oro della regalità, l’incenso della santità e la mirra dell’amarezza che è nella croce e al fondo di ogni vita che si dice umana.

La ruota dell’Universo o Multiverso sembrò per un attimo, nel suo vorticoso splendore, perfettamente immobile. A bassa voce, quasi senza voce, trattenendo il fiato come uno yogi o un feto, nel timore che tutto potesse perire, tutto rifiorire, i re Magi riconobbero in quel bambino la vita che avrebbe donato al mondo la vita per un reale più largo, più libero e più felice per ognuno, ognuna.

"Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri" (Gv 13,35).

In quell’essere-per-gli-altri i re Magi riconobbero l’Essere autentico e – cosa dell’altro mondo in questo – un pensiero e un cuore divini. E allora pastori e angeli non esitarono più: adorarono e tesero le mani al bimbo re per altro che per prendere.

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