La letteratura e il male / La mamma morta

La letteratura e il male

 LA MAMMA MORTA

Da Colloquii coi personaggi di Luigi Pirandello

 

…Non sono io forse viva sempre per te?

Oh, Mamma, sì! – io le dico. – Viva, viva, sì… ma non è questo! Io potrei ancora, se per pietà mi fosse stato nascosto, potrei ancora ignorare il fatto della tua morte, e immaginarti, come t’immagino, viva ancora laggiù, seduta su codesto seggiolone nel tuo solito cantuccio, piccola, coi nipotini attorno, o intenta ancora a qualche cura familiare. Potrei seguitare a immaginarti così, con una realtà di vita che non potrebbe esser maggiore: quella stessa realtà di vita che per tanti anni, così da lontano, t’ho data sapendoti realmente seduta là in quel tuo cantuccio.

    Ma io piango per altro, Mamma! Io piango perché tu, Mamma, tu non puoi più dare a me una realtà! E’ caduto a me, alla mia realtà, un sostegno, un conforto. Quando tu stavi seduta laggiù in quel tuo cantuccio, io dicevo: “Se Ella da lontano mi pensa, io sono vivo per lei”. E questo mi sosteneva, mi confortava. Ora che tu sei morta, io non dico che non sei più viva per me; tu sei viva, viva com’eri, con la stessa realtà che per tanti anni t’ho data da lontano, pensandoti, senza vedere il tuo corpo, e viva per sempre sarai finché io sarò vivo; ma vedi? è questo, è questo, che io, ora, non sono più vivo, e non sarò vivo per te mai più! Perché tu non puoi più pensarmi com’io ti penso, tu non puoi più sentirmi com’io ti sento!

    E ben per questo, Mamma, ben per questo quelli che si credono vivi credono anche di piangere i loro morti e piangono invece una loro morte, una loro realtà che non è più nel sentimento di quelli che se ne sono andati. Tu l’avrai sempre, sempre, nel sentimento mio: io, Mamma, invece, non l’avrò più in te. Tu se qui; tu m’hai parlato: sei proprio viva qui, ti vedo, vedo la tua fronte, i tuoi occhi, la tua bocca, le tue mani; vedo il corrugarsi della tua fronte, il battere dei tuoi occhi, il sorriso della tua bocca, il gesto delle tue povere piccole mani offese; e ti sento parlare, parlare veramente le parole tue: perché sei qui davanti a me una realtà vera, viva e spirante; ma che sono io, che sono più io, ora, per te? Nulla. Tu sei e sarai per sempre la Mamma mia; ma io? Io, figlio, fui e non sono più, non sarò più…

L’ombra s’è fatta tenebra nella stanza. Non mi vedo e non mi sento più. Ma sento come da lontano lontano un fruscio lungo, continuo, di fronte, che per poco m’illude e mi fa pensare al sordo fragorio del mare, di quel mare presso al quale vedo ancora mia madre. Mi alzo; m’accosto a una delle finestre. Gli alti giovani fusti d’acacia del mio giardino, dalle dense chiome, indolenti s’abbandonano al vento che li scapiglia e par debba spezzarli. Ma essi godono femineamente di sentirsi così aprire e scomporre le chiome e seguono il vento con elastica flessibilità.

E’ un moto d’onda o di nuvola, e non li desta dal sogno che chiudono in sé. Sento dentro, ma come da lontano, la sua voce che mi sospira:

Guarda le cose anche con gli occhi di quelli che non le vedono più! Ne avrai un rammarico, figlio, che te le renderà più sacre e più belle”.

Luigi Pirandello, Novelle per un anno , volume terzo, tomo II, Mondadori, Milano, pp.1152-1153

Autocritica della corporeità metaforica

di Giorgio Cesarano, Manuale di sopravvivenza, Dedalo, Bari, 1974

Come piangono, gli « uomini », nel gorgoglio del piscio chiamando la mamma. Come si allattano all’orifizio. Ma ormai, è cosa pubblica: i produttori del vizio surgelato in rappresentazioni (che più sacre di così mai ne ha vedute il mondo) hanno saccheggiato tutti i Kraft-Ebing, gli archivi di polizia criminale i confessionali, gli schedari degli psichiatri; ed eccole, le « vergogne », fotografate a colori, patinate, ecco in controluce il rivolo quasi georgico di piscio, fin nel bacile di plastica, eccola la nascita prodigiosa dello stronzo, nel caramello della ceramica e del nylon. Dov’è più la nausea? Cosa ne vanno facendo del mistero, del divieto, che messa celebrano questi pii maîtres? Run, run show! Al cinema accanto, teste volano in un bengala di sangue, mani di principesse strappano, in un sol gesto gratiae plaenum, stomaci, fegati, quindi si leccano le dita con lingue rosee, di gattine. Le stesse, sui glandi. I rivoli di sangue e sperma convergono. Proiettate, proiettate, qualcosa ne rimarrà. Persuasi di giocare con la sacra merda (feci-oro), giocano col fuoco. Che cosa vanno imparando i figli di questi fedeli della nuova messa spettacolare? Dove troveranno la forza del disgusto? In nessun luogo: è finita, sta finendo, la regola del divieto. E’ cominciata, sta cominciando, la coerenza del voler vedere. Il sesso è il sesso, la morte la morte. Il processo, doppiato un limine, avanza a ritroso. Dalla rappresentazione verso la nuova verità. Nel tempo enormemente dilatato del pornoshow ciascuno scopre di assistere alla tortura di tutta la propria « vita », inchiodato alla sedia della sua perpetua astanza finalmente rivelata. (…). Guardino, i radicali, tutto il campionario. Vi riconoscano la propria debolezza e i punti di partenza dei propri desideri. Ve li troveranno, l’una e gli altri. Ma guardino senza tremare. Niente sogghigni, niente tentazioni di classificazione. Al di là dell’ira, della vergogna, del disprezzo; dell’estetica, del « buon gusto », della mistificazione. La collera è un’altra da quella che fa stornare lo sguardo. La collera scenda a far luce negli scantinati. Si trovi, la collera, si riconosca. Riporti su il bambino che frigna. Su, alla faccia, su, agli occhi. Su a vendicarsi e vendicare. Su, a dire il vero, finalmente.

Fonte: Giorgio Cesarano – L’insurrezione erotica

http://www.nelvento.net/cesarano/erotica2.php

Si tratta di un campionario di debolezze, di tentazioni del limite e di frontiere ormai relative che sfuggirebbero ad ogni classificazione, se non forse a quella del mito piccoloborghese della cosiddetta “trasgressione”, tipico del sistema dell’austera e sinistra monarchia del sesso che ci governa. A tale proposito – sulla linea dell’intreccio contemporaneo fra letteratura, spettacolo e male – ho trovato sintomatico anche un film, Ma mère, non proprio recentissimo, e che ho visto solo in questi giorni.


Fotogramma dal film Ma mère di Christophe Honore’

Alla morte del padre, Pierre, un adolescente, scopre la vera natura di sua madre: una troia, una cagna, una donna alla quale votare un amore cieco in cui si mescolano angoscia, vergogna, godimento, disgusto, adorazione e rispetto. Dal romanzo Mia madre del filosofo e scrittore Georges Bataille (1897-1962), un film livido, ruvido ed estremo racconta la storia della ricerca del sacro tramite la pornografia, il mito piccoloborghese della trasgressione e il dissequestro della sessualità da parte di un bambino che frigna – un bambino al quale Garrel, l’attore che interpreta Pierre, conferisce una certa sfumatura umoristica. Una iniziazione fallimentare e inconcludente all’estasi della perversione e al male, ambientato alle Canarie, una delle più famose mete del turismo sessuale e industriale. Il cineasta dichiara di essersi ispirato ad alcuni scrittori di oggi: Dennis Cooper, Sarah Kane, Breat Easton Ellis che, afferma , «per me funzionano come i traduttori di Bataille. Il loro lavoro sembra proteggere certe problematiche di Bataille nei confronti delle società liberali contemporanee». (…). “ Guardino, i radicali, tutto il campionario. Vi riconoscano la propria debolezza e i punti di partenza dei propri desideri. Ve li troveranno, l’una e gli altri, eccetera” ( Giorgio Cesarano, op. cit.).

Ma Mère – Scheda film

Note

"Giacché l’uva verde della parola con cui il bambino troppo presto riceve da un padre l’autentificazione del nulla dell’esistenza, e il grappolo della collera che risponde alle parole di falsa speraza con cui sua madre l’ha ingannato nutrendolo con il latte della sua disperazione, legano i suoi denti più che se fosse stato svezzato d’un godimento immaginario, od anche fosse stato privato di certe cure reali" (J. Lacan ).

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