Psicoanalisi / Il sacrificio del figlio

  PSICOANALISI E FEDE

IL SACRIFICIO DEL FIGLIO


 

"O vogliamo cancellare la storia di Abramo o dobbiamo imparare il terrore dell’inaudito paradosso che è il senso della sua vita, così da comprendere che il nostro tempo, come ogni altro tempo, può essere felice, se possiede la fede".

Sören Kierkegaard

Le storie di Abramo costituiscono un fondamento culturale e religioso nodale per comprendere come si pone nei diversi monoteismi la questione del padre.

Torah, Bibbia e Corano tramandano il medesimo episodio del sacrificio del figlio di Abramo. L’incrollabile fiducia del patriarca nei confronti della “voce” divina è univocamente confermata, perché, secondo la versione dei tre testi, il padre è disposto ad immolare il proprio figlio.

A tale proposito esiste più di un elemento controverso, una differenza rilevabile soltanto nel Corano dove si racconta che il sacrificio viene chiesto ad Abramo “in sogno”, senza specificare però il nome del figlio che il padre, messo drammaticamente alla prova da Dio , stava per immolare.

La controversia concerne l’identità della vittima: per la tradizione islamica – che colloca quest’episodio a Minà, località non distante dalla Mecca, e lo celebra come esempio di sottomissione a Dio durante la festa dell’Aïd el-Kebir – il figlio destinato all’immolazione sarebbe Ismaele ( Ismail) , anziché  Isacco. Tale dato offre lo spunto per alcune considerazioni generali.

Anzitutto le sacre scritture attestano che i fratelli Ismaele e Isacco, nati da madri diverse, sono i progenitori di popoli diversi : Ismaele degli Arabi e Isacco degli Ebrei e dei Persiani. La differenza, esposta nella Genesi, è che la filiazione di Abramo in Ismaele è frutto di una fecondazione naturale della concubina Agar ( stranamente mai menzionata nel Corano) , mentre per Isacco Dio dovette intervenire nella fecondazione , poiché Sarah aveva più di settt’anni; lo stesso intervento verrà ripetuto con la vergine Maria per generare Gesù.

Nel Giudaismo come nel Cristianesimo , Dio è allo stesso tempo creatore e procreatore, ovvero un padre oltre il biologico ( un procreatore divino che può sembrare dell’immaginario o una idealizzazione del padre ) , mentre Abramo e Giuseppe sono padri simbolici.

L’identificazione della vittima consente inoltre di stabilire il destinatario di una profezia riguardante soprattutto i suoi discendenti :

"Giuro per me stesso, oracolo del Signore: perché tu hai fatto questo e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio, io ti benedirò con ogni benedizione e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare; la tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici. Saranno benedette per la tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce" (Genesi, 22, 17-18).

Le fonti epigrafiche confermano la distinzione che fa la tradizione biblica tra i due figli di Abramo: Ismaele e Isacco e nella sua ripetizione nei figli di Isacco: Esaù e Giacobbe ( Cfr. Iakov Levi, Le migrazioni protostoriche e lo psichismo collettivo ).

Per il cristianesimo, sotto il profilo simbolico, Isacco è prefigurazione del sacrificio del Cristo. E l’incondizionata abnegazione di Abramo nei confronti del Signore vale a simboleggiare il modello paradigmatico della fede del cristiano, una fede senza riserve che resta consapevole della incomprensibilità dei piani divini e non vacilla nell’incredulità nemmeno nei momenti più bui dell’esistenza. "Contra spem in spem credidit", avere speranza contro ogni speranza, secondo le parole di San Paolo. Insomma, una specie di disperata speranza – tenace, come l’erbaccia dei cimiteri o dei campi di sterminio, un’erba chiamata “erbaccia” solo perché non se ne conoscono ancora le virtù.

Siamo davvero nell’oceano, talvolta assurdo, della vita e della morte; e il rapporto con Dio, la Potenza fondatrice , non è razionalizzabile. Tuttavia nonostante le apparenze spesso disperanti di questa vita, nonostante tutto, "contra spem in spem credidit”. O anche, come nelle sacre rappresentazioni e i racconti popolari che nel corso dei secoli si sono impadroniti dell’intreccio biblico, avere nonostante tutto un cuore buono ed essere puro come Isacco: "colui che ride", avendo speranza contro ogni speranza senza però essere stolto ( in realtà – che terribile espressione ! – Isacco in ebraico significa “ che Dio rida” ).

Secondo la lettura che il filosofo danese Sören Kierkegaard propone in Timore e tremore, il padre Abramo attraversa una crisi che lo porta a mettere a morte “il figlio della carne e del sangue”, per poter ricevere da Dio “il figlio completamente dono, il figlio della promessa”: “ Ma prima di riceverlo hai dovuto estrarre il coltello e affondarlo nella tua carne perché a tutto dovevi rinunciare per poter tutto avere, o venerabile padre Abramo”.

Ricalcando alcune fondamentali funzioni presenti anche nella fiaba e nel racconto popolare, alla minaccia del danneggiamento che assurdamente grava sulla sua vita anche il figlio Isacco non reagisce da nevrotico dicendosi “colpevole”, né da paranoico accusando Dio e il padre di volergli fare la festa, ma agisce da eroe come uno che deve superare una prova; e la supera, ottenendo la ricompensa finale.

Altra è la posizione di Ismaele, che abbandonato dal padre Abramo, si riconcilia con lui, secondo il Corano, al momento della ricostruzione del tempio della Mecca.

Il racconto coranico differisce da quello biblico. Per l’islam, la posizione genealogica di Abramo, il padre del monoteismo, è segnata dalla questione dell’abbandono della concubina Agar e del figlio Ismaele – che acuisce la tentazione del sacrificio del figlio.

 Secondo lo psicoanalista tunisino Fethi Benslama – tale questione dell’abbandono paterno, riguardante Agar, la supposta madre degli Arabi , e Ismail, il supposto capostipite del popolo arabo, “ ha portato il fondatore dell’islam a rinunciare all’idealizzazione del padre , coniando il concetto di un Dio che è ‘essere’, fonte di una funzione simbolica separata e separatrice del padre e del figlio.”

E la domanda posta dallo psicoanalista è “se l’islam non abbia tentato d’introdurre, in seno al suo edificio spirituale, una rinuncia al padre per istituire la fede in Dio.” ( Cfr. Fethi Benslama, “ La rinuncia al padre”, in ‘ Dialogare con l’islam: la psiche tra radicalismo e laicità’, Rivista di psicologia analitica – Vivarium, Milano 2004, pag. 63).

In sintesi, per l’islam Dio non è il padre. E in quanto protettore ( wali) delle sue creature si pone come difensore del figlio nei confronti dell’arbitrio e degli abbagli del padre tentato dal godimento assoluto. E’ quanto emerge dall’insistenza coranica nel distinguere il generatore dal creatore ( khalq) e tenere il Dio ( al-lah) lontano da ogni metafora paterna.

SUL DESIDERIO DI SACRIFICARE

Anche l’ermeneuta ante-litteram e mistico andaluso Ibn Arabî ( XII sec ) va in tale direzione quando nell’opera La saggezza dei profeti ( a cura di T. Burckhardt, trad. it., Mediterranee, Roma 1987) dà un’interpretazione quasi psicoanalitica del desiderio che Abramo ha di sacrificare il figlio. Egli mette l’accento sul “sogno” di Abramo, in base al versetto coranico in cui questi dice a suo figlio: “ In verità ho visto in un sogno che ti immolavo”.

Quello che è in gioco è l’interpretazione del sogno di Abramo; e Ibn Arabî scrive:

Ora il figlio è l’essenza del suo generatore. Quando Abramo vide che nel sogno egli immolava suo figlio, si vide di fatto sacrificare se stesso. E quando riscattò suo figlio con l’immolazione dell’ariete, vide la realtà, che si era manifestata sotto forma umana, manifestarsi in forma di ariete.”

Qui Ibn Arabî ricorre alla sua teoria della presenza immaginativa ( hadrat al khayal, tradotto da Henri Corbin con l’espressione : l’  immaginazione creatrice ) ; e s’inscrive in una lunga tradizione del  sufismo che considera il vero e grande sacrificio quello del “ sé” – il “sé” essendo “nafs”, ovvero psichismo, che è la parte animale e mortale dell’anima la cui rappresentazione è l’ariete passibile di sacrificio. Ma l’originalità di Ibn Arabi consiste in una sottile interpretazione del desiderio – rivelatosi in sogno – di uccidere il figlio nel padre, e il passaggio all’atto dall’immaginazione verso il reale:

Il sogno rileva di una presenza immaginativa che Abramo non ha interpretato. E’ infatti un ariete che apparve in sogno sotto la forma del figlio di Abramo. Così Dio riscattò il figlio dal fantasma ( wahm) di Abramo, tramite la grande immolazione dell’ariete, che era l’interpretazione divina del sogno, della quale Abramo non era consapevole o cosciente ( la yach ur ).”

Quello a cui il sogno mirava era il sacrificio dell’infantile e dell’arcaico nel padre, e non l’omicidio del figlio. Credere alla lettera alle immagini dei sogni deriva da un difetto d’interpretazione, che senza l’intervento di Dio – che è l’ Interprete per eccellenza, in quanto “non è mai incosciente” ( bi la chu’ur) mentre noi non siamo capaci neanche di vedere la nostra forma spirituale – sarebbe diventato un infanticidio.

Le considerazioni sulla fantasia di infanticidio nella mente paterna potrebbero estendersi ed approfondirsi ( per esempio con l’osservazione che una tale fantasia svela il desiderio di uccidere il padre dell’onnipotenza e il rischio di darne un’interpretazione errata, se non fosse per Dio che ristabilisce quella giusta attraverso la sostituzione con l’ariete – animale sacrificale che non a caso rappresenta, per Freud e poi per Lacan – una figura del padre del godimento assoluto e, aggiungerei, della crudeltà del genitore a cui il simbolo e la divina capacità di trasposizione che è nel simbolo pongono rimedio).

In conclusione, ci limiteremo solo ad osservare come sia da un uomo del Medioevo, Ibn Arabî , che ci giungono le ultime conseguenze , straordinariamente moderne, del pensiero del sacrificio nell’islam, vale a dire che il sacrificio, la cosa insanguinata, è un difetto dell’interpretazione del sogno del padre o del desiderio del padre al quale solo un Dio non letteralista né fuso in un sol blocco, ma capace di trasposizione e quindi di vita e di amore per ogni vita può porre rimedio.

Come scrive Fethi Benslama, in La psychanalyse à l’épreuve de l’islam : “ Ibn Arabî rinvia dunque Abramo al suo desiderio dell’Altro, al bambino immaginario, vale a dire a un Dio presente nella sua non-coscienza. Si vede bene perché gli islamisti proibirono i suoi libri e li bruciarono, considerandoli come opera di un apostata.”

Nel rifiuto della complessità si annida la tirannia. In Ibn Arabî, contemporaneo di Averroè, c’è un tentativo – testimoniato da tutte le sue opere e molto più complesso e articolato di quanto non si possa riassumere qui – di estrarre una spiritualità dal monoteismo islamico del Dio oscuro che credendo nelle sue versioni fondamentaliste di ritornare letteralmente all’Origine e a un padre assente, e quindi allucinato, esige, per calmare le colpe dei padri, il sangue dei figli.

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6 risposte a Psicoanalisi / Il sacrificio del figlio

  1. flaviablog scrive:

    Molto interessante. Avevo seguito un dibattito del genere, tempo fa, sulla figura d’Ismaele. Mi mancavano le conclusioni in merito alla divergente considerazione di Dio Padre e di un Dio che difende *anche* dal padre, ma non potrebbe essere motivato dal fatto che nel cristianesimo è professata la monogamia e il padre è la figura portante della moralità e dell’educazione della prole, limitata e figlia d’una sola donna, che incarna la Madre, altra figura importante ? Dove è praticata la poligamia (maschile) le tante donne procreano figli, che sono e non sono sullo stesso livello, figli di più mogli e di concubine, figli in competizione ed in conflitto, figli nella grazie o in disgrazia, seguendo le sorti delle loro impotenti madri. Dio non può essere padre , dove il padre si limita ad essere padrone ed inseminatore.

  2. anonimo scrive:

    Questo padre che scaccia il figlio e la (alla) madre, fa riflettere sulla fragilità della visione della società islamica come patriarcale, sollecitando una riflessione sulla presenza in essa di evidenti, e determinanti, aspetti grandematerni. Qui c’é Una metafisica ispirata a un padre abbandonico e depresso, e una fisica-vitaquotidiana dominata dalla visceralità aggressiva della Grande Madre abbandonata e vendicativa. Complimenti e auguri, Claudio Risé

  3. anonimo scrive:

    Se avete tempo e voglia, leggete questo commento in tema di questo psicologo ebreo, ateo:

    http://www.geocities.com/psychohistory2001/dioebraismo.html

  4. antonypar scrive:

    Saggio molto interessante. Del resto bisogna parlarne di certi temi, nella religione vengono proiettati diversi psichismi anche se, come diceva Yung, esiste un profondo di archetipi e di esigenze spirituali che li trascendono. Personalmente ritengo che l’antromorfizzazione cristiana di Dio come padre, se da un lato sembra che avvicini l’uomo al divino in realtà lo inquina con tutte le proiezioni genitoriali possibili. L’operazione del Corano è più sana da un punto di vista psicologico: Dio è inconoscibile ma nello stesso tempo è piò vicino all’uomo della sua vena iugulare. Così anche il buddhismo ma è tutta un’altra storia.

  5. giannidemartino scrive:

    Non è certo che “l’operazione del Corano” sia “più sana da un punto di vista psicologico”. L’affermazione coranica, finora rimasta impensata, che Dio non è il padre potrebbe infatti anche configurarsi come una regressione dal Dio generatore al Dio creatore, dal Dio che è Vita e Ragione in ogni vita umana al Dio geometrico, dai tratti astratti.

    In altri termini, si sarebbe in rapporto con un Dio che non sarebbe ” Padre nostro che sei nel cieli “, ma un Dio-Essere del quale non si conoscerebbe che la Volontà e la Legge rivelate direttamente e letteralmente al Profeta in lingua araba “purissima”.

    Lontano da ogni metafora paterna e separato dall’uomo per l’ “abisso delle qualità” , il Dio ( al-lah) sarebbe tuttavia “vicino all’uomo” come una specie di Ente invisibile, onnipotente e misericordioso, di “tutore” o “protettore” (wali) cosmico che crea perché vuole essere amato e servito dalle sue creature, ma senza reciprocità.

    Un Dio che è persona nel padre, figlio e spirito, è animato da una dialettica generativa interna che lo rende, per così dire, meno monolitico e più vicino alle ragioni della vita e della sanità, se non della santità, della vita.

  6. antonypar scrive:

    E’ un punto di vista rispettabile ma Neppure questo certo. Quel che per uno può essere regressione per l’altro evoluzione. Da un punto di vista strettamente etologico l’idea di Dio nasce come necessità di un super-alfa, ossia di un capo-padre che risolve i problemi. Nel Corano è pensata la possibilità del padre e del figlio ma è esclusa come regressione al precedente paganesimo (Allah prima aveva una identificazione genitoriale ). Comunque, ripeto, sul fatto del meglio e del peggio è facile entrare nel fideismo e nel partitismo. Il bello dei blog , anche quando si parla di cose serie, è quello di evitare accademismi, scrollarci di dosso la muffa dell’università per chiaccherare spontaneamente tutti alla pari. Ognuno la pensi come crede.

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