Alla brezza del giorno

… ALLA BREZZA DEL GIORNO
 
 Tommaso Masaccio
 La colpa primaria è un atto indicibile. Fin dal primo giorno, da sempre, egli, l’invisibile, ci pone una domanda terribile: “ Dove sei?”.
E’ il peso di un inizio e, nello stesso tempo, di una rottura che suona come una colpa, una vergogna, una perdita e un tentativo di nascondimento. Un sentirsi comunque in mancanza: anzitutto di danari per i saldi di fine stagione questa notte a Milano, e poi naturalmente di tenerezza, d’infinito, forse di un piccolo gesto d’intelligenza, di poesia o di pietà in risposta a una vera domanda.
Eccoci  “a ruota” ( come si dice nel gergo dei drogati), in mancanza di parole che non siano un’eco, ma voce che risponda invece di mancare infinitamente… ( “Avete bisogno di parole?”, chiede zio Bill, William Burroughs, affacciandosi dal cielo degli autori, echeggiando e nascondendosi, quasi cospirando  in una parentesi. Scusatelo se s’intromette…).
 “Dove sei?” In un giardino piantato in noi da prima che cominciasse la storia. Forse in vertigini di stelle che non sono stelle, l’oceano della vita e della morte.
In ogni caso, Adamo non sapeva rispondere… Quello che provava mentre cercava di parlare a Dio sulla sua linea telefonica speciale era la paralisi di fronte all’invisibile, un pugno che bloccava il petto, proprio sotto il collo…Per la prima volta aveva incontrato l’angoscia. Palpitazioni, un vuoto allo stomaco bloccato da una  palla di ferro senza voce né soffio, malessere che cresceva sordamente… A ondate. Ondate d’invisibile e quella tipica, sgradevole sensazione kafkiana di un “continuo mal di mare in terra ferma”.  L’angoscia è una “ventosa sull’anima”, avrebbe detto con voce roca, quasi senza voce, Antonin Artaud. Certo, noi creature civilizzate & letterate abbiamo tutti, prima o poi, l’impressione che qualcosa, fin dai primordi, debba essere andato storto nell’universo… ( “Gulp!” faceva Adamo e “gulp! glup!” ripeteva Eva, accavallando la “p” e la “u” e muovendo nervosamente le dita dei piedi, ma non era un fumetto…).
“Dove sei?” Nell’angoscia, vale a dire – dopo un primo momento di disorientamento – sulla via obbligata dell’ingresso nella scrittura : un impotere esplorato da Blanchot e Derrida, la vertigine del “come cominciare” evocata da Beckett, “l’esperienza abietta” della psicanalisi secondo Lacan, il pullulare informe dell’essere per Levinas ? Adamo era nel pensiero, ma cos’è il pensiero di Adamo se non una figura dell’angoscia ?
L’angoscia provata dai progenitori in quel giardino non aveva nulla di familiare, non somigliava a quelle paure o a quei segreti che diciamo “intimi”: era la terra che diventava deserto, gli alberi del Paradiso che bruciavano, diventavano la polvere roteante  del post-moderno,  del post-mortem e post-tutto. “Dove sei?”. Nell’ “intimo” della polvere e dei miraggi della polvere, un fiore del Paradiso spezzato da lontano ai gomiti e ai ginocchi, mentre la memoria di Adamo diventa densa, agglutinante – come pare sia la memoria di tutti gli esseri incompiuti…
“Debbo morire, Signore?”. Anzi: “Signore & Tutore?”. ( Ecco : “ … l’angoscia è appunto qualcosa che si situa altrove, nel nostro corpo, è il sentimento che sorge dal sospetto di essere ridotti al nostro corpo” . Lo ha notato Lacan, La terza, in La psicoanalisi, Astrolabio, Roma, 1933, p. 103; citato da Giuliana Kantzà, Il Nome-del-Padre nella Psicoanalisi, Milano, Edizioni Ares, 2008, p. 174). Il sospetto di essere ridotti al nostro corpo è, oggi, un’angoscia diffusa…Insomma, non solo si deve morire, ma occorre anche che avvenga “con dignità”, cioè in buona salute, altrimenti qualche tutore, mosso da quello che egli chiama a gran voce  Amore, può sempre chiedere e ottenenere da qualche giudice di manica larga che ti venga tolto quel brutto sondino. “Buona morte, figliola!”. “Altrettanto, papà”. Ad ogni modo, ecco Adamo, con il ditino, il sondino e quant’altro puntato, non senza vigliaccheria, sulla piccola Eva, che a sua volta, niente,  si mette un dito in bocca come una bimba persa ai margini di un bosco e si dice “un attimino” ingannata dal serpente, da allora suo eterno nemico…eccetera.

Insomma, Adamo era stato trasformato in "peccatore", cacciato in una gabbia, lo si era rinserrato tra idee semplicemente orrende e lì se ne stava malato, miserabile, maldisposto verso se stesso: colmo d’odio verso gli impulsi vitali, pieno di sospetto contro tutto quanto era ancora forte e felice. Insomma, un "cristiano". (Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli).

 Un incidente orrendo in Paradiso così come oggi a Llorett de Mar proprio mentre impazza la movida. Bye bye vacanze, giostre scavalcate, crociere di sogno immaginarie…Ma cosa aveva fatto Adamo ? Aveva abbandonato la placida orizzontalità dell’animale, si era alzato in piedi – scoprendo peraltro i genitali alla vista di Eva, del serpente e degli angeli senza culo ?  Forse, morsicando con piccoli denti una mela verde, perduta per sempre da Eva in quel giardino, avevano cominciato il pranzo della vita dalla frutta. Dal Frutto Proibito dal capobranco ? Proprio quello che non bisognava fare: uccidere a pietrate e con la clava  papà scimmione per divorarlo al fuoco di un bivacco … mentre tanta, troppa luce scendeva dall’alto e – con il passar del tempo – piegava e quasi trasformava tanti onesti cannibali in un punto di domanda: ?
Eccoci con Adamo dove non c’è dove: a seppellire in fretta vertebre di antenato, ossicini e torsoli di mela; e tappare ben bene i  buchi – buchi anche di memoria e piccole ferite, buchini quasi insignificanti…
Fu solo il loro accumulo, l’accumulo di tanti buchini, ossa spolpate e piccole ferite, anche narcisistiche, volendo, che finalmente convinse Adamo che la cosa era davvero grave. Ma quella Cosa lui non poteva dirla. Poteva solo accorgersi dell’evidenza della catastrofe e indossare tra culla e bara il famoso cache-sexe sul reale del sesso. Raramente, qualcuno tra noi viandanti lascia intravedere, attraverso il suo bel volto, l’invisibile, assoluta nudità della vita. E’ un lampo di estasi pura. Ma anche un vino che, se bevuto a garganella, potrebbe provocare ebbrezze criminali agli amanti sprovveduti. In ogni caso, per avanzare sul teatro del mondo e diventare persona occorre una maschera. Gli adolescenti lo sanno. E sapere di dover giocare un ruolo è per loro una sorpresa spaventosa. E’ l’ora tragica della scelta, e anche dell’orribile libertà di non essere, magari continuando a sognare arcobaleni senza che prima sia scoppiato l’uragano…Chissà perché quel giorno gli angeli riempirono il Paradiso di tutti quegli strepiti. Parevano strilli di uccelli tropicali. E in giardino ormai incombeva il fulgore di una spada fiammeggiante e risuonava un altolà che da allora non cessa di ghiacciare il sangue nelle vene degli amanti e dei viandanti.
Non si sa. Si va verso il punto esatto della fenditura di un soggetto e di un reale sessuale che non è un idillio ( e neanche il luogo della parola e della confidenza fra lui e lei, o addirittura della gestione-ottimale-dei-bisogni-della-gente – come dicono gli stupidi guardiani dei bisogni, organizzatori di movide e girotondi ). Predisposti a venire alla luce nel luogo del trauma, in un luogo tanto bello e terribile, abbiamo comunque la necessità, per vivere sufficientemente bene, di raccontarci delle storie e coltivare illusioni che ci proteggano, almeno in parte, dalle angosce e da quei dèmoni accovacciati alla nostra porta. Sono quei dèmoni da giardino che per tranquillità chiamiamo “fantasmi”. Ma i dèmoni esistono. E non sono innocui nanetti da giardino o cagnolini…Vengono travestiti da cari fantasmi sia dall’esterno che da noi stessi; e danno talvolta, nel bene e nel male, una qualche rappresentazione e prospettiva ai cosiddetti bisogni e desideri profondi.
Il risveglio, nonostante i tanti farmaci e i giri senza fine di travestimenti multipli, potrebbe anche essere brusco e provocare disillusioni tremende. Disillusioni lente, che si fanno nel solco dei sogni. Oppure improvvise. Ma come, ancora le grida, le campane, le ambulanze ?  Porte che sbattono. Che peccato che debba finire così! Davanti a tante porte chiuse, intasate dai fantasmi. Proprio qui in giardino, in un angolo di giardino insanguinato, un cesso rischiarato d’irrealtà.
Mancando l’essere e credendo di essere pensando l’essere – cosa di un’illusione totale – il primo degli uomini del “mito” della Genesi non ha risposto e ci ha trasmesso – attraverso il “mito” – la colpa primaria: non saper rispondere dal luogo detto della parola vera. Questo luogo nudo e vero – che a bassa voce, quasi senza voce, diciamo il luogo del peccato originale: luogo del crimine primordiale, anzi di un’innocenza e di una libertà ancora più antiche e criminali della colpa – è quanto abbiamo di più prezioso. Eppure il più delle volte l’angoscia è tale che non vogliamo saperne niente.
“La colpa in me è qualcosa di così vasto e radicato che il meglio è ancora di imparare a vivere con essa, anche se toglie sapore al cibo e al minimo alimento: tutti al mondo, anche da lontano, esalano un gusto di cenere”. ( Clarice Lispector, 5 luglio 1969, cit. da > Chemins ).  
Imparare a vivere, tessere il velo protettore di un racconto, della preghiera e del segreto, sono un impossibile in risposta alla nostra libertà e responsabilità inalienabili. La libertà, per esempio, di non sentirsi già tutti delle vittime e non trasformarsi – come per improvvisa amnesia – in tanti mucchietti d’immondizia piagnucolante. Resta, non sempre,  la speranza, tenace, simile a quelle erbacce che crescono ai bordi dei cimiteri, i campi di sterminio e i giardinetti insanguinati. Del meraviglioso giardino non restano che le erbacce,  che noi coltivatori chiamiamo tali, erbacce appunto, forse solo perché non ne conosciamo ancora e veramente a fondo le virtù. Chissà che da certe erbacce non si possa ricavare un qualche ricostituente, che so, un amaro tonico per la carne prudente, impaurita e che invecchia, insomma qualche lozione che eviti il cosiddetto “crollo verticale”, anche dei seni o, quel che è peggio in noi maschietti, della famosa mazza, e restituisca luminosità e robustezza a tanti bei capelli morti…

Mah! Alla fine occorrerà pure ringraziarlo per averci fatto, nonostante tutto, questa tunica di pelle umana. A meno di non voler sprofondare nella tristitia, in quel vero e proprio peccato che è l’accidia. Peccato mortale, in quanto, per san Tommaso, “tedio del bene spirituale e interno, per sua natura contrario alla carità”. E, con Lacan del Seminario VII, una viltà morale, in quanto l’accidioso  pensa di sottrarsi al dovere di bien dire,  di dire bene e  di benedire, ovvero “di trovar profitto dal ritrovarsi nell’inconscio, nella struttura”.
Ripartire dal luogo nudo e vero. Ma attraverso tante appuntite foreste di difesa, errori e cumuli di erranze erranze vane, cancellature e tagli, specialmente tagli nel vivo ?
Forse occorre il coraggio di essere teneri e non sottrarsi al dovere di bene dire. Se non proprio di dire grazie all’amarezza che è nel fondo del nostro liquore preferito.

Siamo responsabili di molte storie possibili, e anche dell’impossibile. Ah, l’impossibile! Volere l’impossibile non è forse, nella maggior parte dei casi, anche generazionali,  un alibi per non fare il possibile ? Intanto, nell’attesa, non inerte, dell’impossibile che passeggia nel giardino alla brezza del giorno, non è impossibile imparare a vivere con la colpa primaria che non si può dire.
P.s. Forse qualcosa del genere deve averlo pensato un giorno, o una notte, nonno Leonardo, cercando di non farsi cadere di mano il pennello  – pennello sottratto per un attimo a una “sana decisione di castrazione”, come ghignando avrebbe detto Umberto Eco. Accadeva proprio nel momento in cui Leonardo si era quasi deciso a dare un taglio a quella vecchia storia e incominciare a vivere:
…INCOMINCIARE A VIVERE
Mentre volevo incominciare a vivere
mi accorsi che dovevo morire.
                           Leonardo da Vinci
 
Leonardo, San Giovanni Battista ( 1508 – 1513 ), Musée du Louvre di Parigi.
E’ l’ultimo quadro dipinto da Leonardo.
 
Immagine
Masaccio ( Tommaso di Giovanni di Mone Cassai ), Espulsione di Adamo ed Eva dal Paradiso terrestre (1426-27), Cappella Brancacci, Chiesa di Santa Maria del Carmine, Firenze. Quanto a Masaccio, l’autore del quadro, ecco: « Fu persona astrattissima e molto a caso, come quello che, avendo fisso tutto l’animo e la volontà alle cose dell’arte sola. Si curava poco di sé e manco d’altrui. E perché è non volle pensar già mai in maniera alcuna alle cure o cose del mondo, e non che altro al vestire stesso, non costumando riscuotere i danari da’ suoi debitori, se non quando era in bisogno estremo, per Tommaso che era il suo nome, fu da tutti detto Masaccio. Non già perché è fusse vizioso, essendo egli la bontà naturale, ma per la tanta straccurataggine.» Giorgio Vasari.
 
 
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