Georges Lapassade in Marocco ( 2 )

GEORGES IN MAROCCO ( 2 )
Tracce di un movimento culturale ( 1969- 2008)
Nel frattempo, in quell’estate del 1969, Georges era venuto in Marocco, in paese berbero,  per vedere un amico, Julian Beck, il fondatore con Judith Malina del Living Theater. Si conoscevano da tempo, si erano poi incontrati a Grenade e Beck gli aveva proposto di raggiungerlo in macchina a Essaouira dove doveva passare l’estate con parte del suo gruppo in piena crisi (“ La Cultura Borghese”, aveva proclamato Beck tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi dei Sessanta, “ è il nostro Palazzo dell’Oppressione. Evadere. Arte come azione! ”. E ora, nell’estate del 1969, si lamentava dicendo a Georges e a chiunque volesse ascoltarlo: “Siamo diventati troppo famosi”. Lo diceva mentre accarezzava un gatto sulle ginocchia a casa di Murad Ottmani, un giovane intellettuale del posto. Da qualche parte, in cantina, debbo avere  una sua foto di quel periodo…). 
Essaouira, l’ex Mogador, l’ex “porto di Timbuctù”, era una piccola città diventata marginale dopo la fine dei commerci transahariani e la costruzione del porto artificiale di Casablanca. Era  calma, tranquilla, sognante. Di notte, nei vicoli della medina spazzati dal vento, non si vedevano altro che gatti che rovistavano fra mucchi di scorze di cocomero e teste di sardine. Vivevo a Essaouira da due anni in una casa in Rue Youssef ben Tachfine presa in affitto da Lalla Sadia.
 Erano due stanze in alto, sulla terrazza bianca di calce, sotto un cielo di panni stesi ad asciugare e il sovrastante minareto, tozzo, quadrangolare. Cinque volte al giorno il muezzin prima tossiva un po’, poi gracchiava da un altoparlante l’invito alla preghiera, seguito dall’abbaiare dei cani del quartiere. In sincronia, dalla campagna circostante, giungevano gli echi degli altri minareti fra palme sbilenche in lontananza. E il cielo era scipito e blu, come forse sono tutti i cieli in cui vige una religione di Stato. Al piano di sotto ( la casa era su tre piani, oggi c’è l’ "Hotel Maroc") c’era il bordello di Sadia, animato dalle danzatrici dette skirat e frequentato solo di notte dai notabili del paese e anche dal muezzin che potevo scorgere dalla mia terrazza rasentare i muri con molta circospezione, il cappuccio della gellaba calato sugli occhi e in mano una bottiglia di vino accuratamente avvolta nella carta di giornale. Una volta vidi anche il commissario di polizia, quello che doveva rinnovarmi il permesso di soggiorno, pizzicare il grosso sedere di Sadia che quando usciva di casa indossava l’haik bianco e le si intravedevano i denti d’oro in trasparenza attraverso il velo. Quando Martine, la mia ragazza di allora mi lasciò per mettersi con un hippie, Sadia venne a trovarmi su in terrazza e disse: “ Mal au coeur ? Male al cuore ?”. Allora le donne non portavano il velo, solo le prostitute si velavano, e chi non rispettava il digiuno del ramadan non veniva perseguitato, come avviene oggi al seguito della diffusione dell’islam waabita, un islam rigido e puritano, molto diverso dall’islam marabutico del Marocco tradizionale.
Era il periodo hippies, avevo ventidue anni e  a Milano nel 1967 avevo partecipato alla redazione di “Mondo Beat” e mi ero beccato un foglio di via durante l’irruzione della polizia al campeggio di via Ripamonti, un tentativo di comune urbana autogestita battezzata “Nuova Barbonia” dal “Corriere della Sera” e disinfettata con molto DDT dal S.I.D. ( il Servizio Immondizie Domestiche del Comune di Milano). Arrivato a Essaouira nel novembre del 1967, tutto quello che allora m’interessava era restare fuori dai coglioni di tutti e – nell’ordine – scrivere, fumare il kif, fare l’amore e praticare il surf sui cavalloni immensi dell’Atlantico, un mare alto, grigio, già africano, che i ragazzi chiamavano Taghart.
Chi non avrebbe voluto fare come noi? I ragazzi raccontavano che Sadia non portava niente sotto, e gli intellettuali del posto dicevano che Georges era contro il Progresso perché s’interessava dei “marginali”, non gli piaceva la musica arabo-andalusa ma quella dei “negri” ed era pure “avaro” perché non comprava mai niente nel suk e invece di andare al ristorante dell’" Hotel des Iles" andava a mangiare l’harira, una zuppa di ceci e  vermicelli, resa acidula dal pomodoro, profumata di coriandolo e molto piccante  , al quartiere di Bab Doukkalà  dove accanto alle pompe di benzina sostavano le corriere polverose della CTM, un posto frequentato solo da viaggiatori e dalla gente di bassa classe, gli “zouvfris”: gli scioperati, i delinquenti, i neri. Una volta mi dissero che il nuovo arrivato, Georges Lapassade, era un vecchio monsieur che si vestiva come un giovane, con i pantaloni a zampa d’elefante. Lo si vedeva fermare per strada, nei vicoli della medina, chiunque incontrasse, chiedendo loro a gran voce l’indirizzo della zaouia dei Ghnaua e se conoscessero questo o quel maalem, maestro delle cerimonie, come Boubker, per esempio: “ Sapete dirmi dove posso vedere il maalem Boubker… BOUBKER, vi ho detto!”. In genere i ragazzi dei vicoli rispondevano svogliatamente: “M’moumtà!” ( “Più in là”) e gli hippies ridevano, strafatti com’erano dal vento, dall’amore e dal kif, e talvolta lo invitavano a prendere un tè alla menta a casa loro, in stanze dai pavimenti cosparsi di sacchi a pelo, bucce d’arancia e mozziconi di candela .
Gli hippies della prima ondata non erano ancora numerosi, venivano al fresco di Essaouira in estate, lasciando quella pentola rovente di Marrakech. Inizialmente guardati con sospetto dai locali ( correvano voci che gli hippies mangiassero i gatti ), poi si erano bene o male  integrati con la popolazione e affittavano case ornando i muri con poster di Shiva e di Visnù o dipingendoli con affreschi psichedelici al fosfospruzzo. Quel mese d’agosto del 1969 era sbarcato a Essaouira anche Jimi Hendrix, proveniente dal Canada, aveva alloggiato all’"Hotel des Iles" e ripreso il volo dopo un paio di giorni, il 5 o il 6 agosto per partecipare a Woodstok. Ebbe il tempo di conoscere Hassan, detto “ “the king of shilom”, un giovane artigiano di marqueterie, adepto Ghnaua e suonatore di guembrì, che aveva il migliore ashish di Essaouira. Hendrix ebbe  appena il tempo di conoscere anche Julian Beck e Georges Lapassade. Immaginatevi la scena mentre si passano un joint o un sebsì, una pipetta di kif a casa di Paco, un giovane suonatore Ghnaoua. Ho descritto la scena in Marocco. Una guida diversa per viaggiare differente ( uscito a Roma per Arcana nel 1975, insieme a M’Hashish & Cento Cammelli nel cortile di Paul Bowles e Mohamed M’Rabet, che in quel periodo vivevano a Tangeri ). “ Mura bianche. Stuoie di rafia per sedersi a terra e candele accese. Beck rifiuta la pipa tesagli dal sociologo francese Georges Lapassade. ‘ Non fa niente Julian, puoi passarla a Jim ?’. E così di seguito, si fa il giro. Paco prende il suo guembrì, una specie di chitarra a tre corda con sul manico dei sistri tintinnanti, e fa cenno ai suonatori di qerqaba, dei crotali di ferro. Cerca di condurci così fuori dal tempo… Un’aura magica si forma. Il tempo cambia e cambia anche lo spazio, che sembra come prodotto da una sottile ascensione…”. Paco diceva di non credere ai ginn, che i “veri” ginn o m’louk sono il potere, e sarà all’origine del gruppo pop marocchino “Nass el Giwane”.
Quando Georges arrivò a Essaouira fu il “tornado”. Niente vacanze, finite le vacanze. Ci mise tutti al lavoro. Chi a cercare contatti con i maalem, chi a registrare le musiche, io dovevo sbobinare e trascrivere i canti con l’aiuto di Magid Abdeslem: “Oh oh Sidi Bouderbella / Liberaci signore Bouderbellà”. Bouderbellà era un m’louk, una specie di ginn che quando possedeva gli adepti, questi dovevano vestirsi con una tunica composta di pezzi di stoffa di vari colori, e munirsi di un bastone e di una borsa di pane secco. Bouderbellà era un sufi vagabondo, simile ad Arlecchino. Georges aveva scoperto l’esistenza dei Ghnaua, una confraternita di neri che praticava la transe e i riti di possessione che lui aveva già incominciato a studiare in Tunisia, poi in Senegal con l’équipe del dottor Collomb e Michel Leiris, con la differenza, diceva, che a Tunisi questa cultura era disprezzata, mentre a Essaouira era al centro della cultura popolare.
Nel 1969 uscì il celebre articolo di Lapassade su “Lamalif” intitolato “Essaouira, ville à vendre”. Era la scritta lasciata su un pannello all’ingresso della città dai giovani ebrei che lasciavano Essaouira con le loro famiglie, svendendo i loro averi e le loro case del mellah,  per raggiungere Israele o il Canada, dopo la guerra dei sei giorni. Ed era anche l’emblema di un porto una volta fiorente e ora in piena decadenza, gremito di giovani disoccupati. Senza nient’altro da fare che lo struscio avanti e indietro come cammelli sulla spiaggia deserta, suonare tamburelli, guembrì e qarqaba per entrare in transe e dimenticare la miseria, oppure sedere, senza consumare, ai tavoli dei caffè mori, proibiti alle donne e ai veicoli, ascoltando il vento che soffiava da sotto gli usci e sognando un mondo in cui la vita potesse essere diversa. Quando nei caffè mori qualcuno annunciava l’arrivo di  una rafle della polizia, tutti nascondevano le pipette e il kif dentro i calzini. ( continua…)
Les années Hippies au Maroc  (1) – video Arté
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