L’ULTIMA LETTERA DI VLAD IL VAMPIRO (Variante del testo pubblicato)

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Che dirà il caro Wolf, il mio fedele e devoto gobbetto, quando udrà la morte del suo Dracula? E per le voci che questa notte circolano nella Torre non tarderà molto la novella; perché all’alba entreranno nella cella dove mi hanno gettato e spalancheranno la finestra sul sole. Ah, il grande sole mentitore e la fastidiosa luce che m’uccide! Quasi rapido torrente d’improvviso splendore, del quale, senza poter aver alcun appiglio, vedo chiaramente smagliarsi l’ombra mia.
Chi varcò il Danubio e sconfisse i turchi sul loro stesso suolo? Era un Dracula! Ma non è più tempo ch’io parli delle guerre in difesa della Cristianità e della sfortuna, per non dire delle infami leggende che si tramanderanno con la pretesa di aver fatto finalmente chiarezza; né delle menzogne che di me racconterannotestimoni incappucciati. Non è più tempo ch’io parli dell’ingratitudine, la quale ha pur voluto aver la vittoria di rinchiudermi in una fetida ed estranea prigione ; quando io pensavo che quei servizi guerreschi non m’avrebbero lasciato in alcun modo senza ricompensa.
Trame politiche, lo avrai saputo, e congiure dinastiche hanno deciso la mia sorte. Da alleati qual erano, Papa e Re son diventati i miei persecutori; e altro ormai non potrà più fare il buon Nicolaus, dai cui passi per la revisione della sentenza mi aspettavo qualche vantaggio e che ora tace, imbarazzato, forse per ordine del papa – quel piccolo satrapo indifferente al mio caso e malvagio unicamente per noia o per presunzione.
Tutti han creduto alle terribili leggende che i compagni di un tempo hanno diffuso sul mio conto, fino a quella notte di vento e di neve in cui mi gettarono, con tutte le mie carte e i venerati libri di Alchimia, in fondo alla prigione della Torre: nel buio dove centinaia di topi mi circondano; e la ragione vacilla, in attesa d’esser rapito dalla luce di una morte che ora mi è chiara come il sole.
Sai dove siedo, io? Il mio sedile è l’incavo d’una vecchia tomba; la mia scrivania il dorso d’una pietra tombale caduta, resa liscia dalla devastazione dei secoli; il mio unico lume è il chiarore della candela e tuttavia vedo chiaramente, come se fosse mezzogiorno, anche negli angoli più bui e lontani. E nella scrittura continua la mia visione di tanti bei corpi addormentati. Li vedo sospesi nell’effimera danza tra la vita e la morte, tutti giacere su un letto di spine; e uno strano affetto mi coglie, simile a un dolore lancinante.
“Male al cuore? Serve sangue?”, chiedono i miei guardiani. Le voci risuonano ironiche, rimbombano sotto le alte volte del sotterraneo, questo immenso cranio rovesciato. Anche adesso ridono della mia sete di altro latte, altro inchiostro. Allora divento tutto unghie e denti. Ed è improvvisamente vuoto ciò che mi circonda.
L’inchiostro è finito. Non ne daranno più. “E’ tardi”, dicono. ” E’ giunta l’ora in cui ci libereremo di te, parassita sporco e immondo”. Allora scrivo col sangue che mi è tolto. E la scrittura, come la morte, riempirà i buchi…
Ascolta, Wolf, amico mio, non senti soffiare un vento terribile, sentimentale, che mi fa ammalare, ci farà ammalare tutti, di peste, forse.
Che cosa sarà di te? Ti lasceranno almeno la tua abitazione, almeno la tua camera? O forse hanno già bruciato tutto e tu vaghi ai limiti della foresta, in attesa di avere notizie della mia sorte, notizie che forse non ti arriveranno mai? Tristi pensieri! Tristi immagini!
E’ gente amara, quella, il loro riso è vuoto. E anch’io rido. Di me, di loro, i guardiani. Rido giù per il grugno… Ah!… così. Come se mi sentissi dolcemente azzannare rido – silenzio, prego – dell’infelicità. E un tremito giunge alla mano che scrive, alle pareti della cella, alla luna, alle stelle. Sì, l’universo vacilla come la fiammella di una candela.
Tante ombre al guizzo della morente lampada, ma non la mia – tutta racchiusa in me, come vorrebbero i miei calunniatori, privo come sarei d’ombra e di riflesso quasi fossi una lucertola, o un pesce.
Per i posteri non sarò che un fantasma tremolante sulle rive dei loro sogni; ma tu mi hai visto levarmi vivo, con un corpo vibrante come una bandiera sotto il cielo dei campi di battaglia, energico, pieno di vigore, infaticabile nei miei quotidiani sforzi di respingere le armate dei barbari oltre il Danubio, al servizio del Re e del Papa – del Papa, sì, che allora non mi chiamava “vampiro”. Mi ricordi forse senza ombra alla battaglia di Varna, quando mio padre mi lasciò il comando dei soldati che combattevano accanto ai crociati, o quando , poco più che adolescente, mite e religioso, vestivo di rosso scuro, con una mantiglia di seta verde, e durante le cerimonie portavo al collo due catene d’oro, unite da una croce a doppia sbarra, dalla quale pendeva quel drago rovesciato per cui si farneticò di culti fumosi e catramosi con diavoli e stregoiche, tra spaventevoli eresie, feroci impalamenti e odiose sodomie. E ti ricordi come correvo, quel giorno, come un giovanotto, quel giorno di Aprile pieno di sole che ti lasciai in asso col martello a verificare le artiglierie, e poi andando io stesso a raccogliere un pezzo di cannone che mi pareva dubbio?
Ero un guerriero sfolgorante di gioventù e di freschezza; e ora, esiliato dalla vita, corro dietro ai fantasmi della mia identità passata… Corro su questi anelli di pitone nero di scrittura… dove mi costringono al buio e all’immobilità di una fredda cella e i guardiani mi privano persino dell’ombra e per derisione mi obbligano a calzare lucide ciabatte di donna.
Maneggiavo la spada, e ora tasto solo una sudicia penna, avendo smarrito la consapevolezza del mio proprio corpo. Mi guardo le mani, sembravano linee colme di fuoco. E ti faccio segno, fedele amico, dal capolinea, parcheggiato sull’orlo dell’abisso che hanno voluto spalancare sotto la mia vita e l’opera; qui dove la morte – la mia fine – s’annuncia nel moltiplicarsi dei riflessi della mia leggenda e si dilata tra le pietre sporgenti delle arche, paurose, in una tenebra senza visibili confini e come sospesa, per consentir sortite di fantasime o resurrezioni delle carni.
Ti ricordi come mi vide quello sciocco di Jonathan Harker, il robusto e goffo impiegato giunto in missione al nostro castello? Non trovando traccia né di campanello né di picchiotto, levò lo sguardo verso le mura e le negre aperture delle finestre, sollevandosi in punta di piedi, come se avesse voluto lanciare una voce, che non usciva, di là da quelle mura mai esistite, se non nella sua testa nebbiosa. E che sforzi faceva per svegliarsi dall’interno del suo proprio sogno ! A che razza di luogo era mai approdato, e tra che gente? Si aggrappava, agitandosi come un pollo addormentato, al trespolo della propria identità. Ripeteva ipnotizzato da se stesso: ” Impiegato di uno studio legale! A Mina la definizione non piacerebbe. Procuratore legale, piuttosto!”. E cominciava a fregarsi gli occhi e a pizzicottarsi per vedere se era sveglio.
Noi lo osservavamo, per un tetto aperto, una finestra scomparsa. Le nostre mani gli gettavano ritagli d’unghia, torsoli di mela, croste di pane, pezzetti di carta dove non c’è mai scritto niente. E quando bastò un niente per aprire la porta, mi vide alto, vecchio, accuratamente sbarbato a parte i lunghi baffi bianchi, e nerovestito da capo a piedi, senza una sola macchia di colore in tutta la persona.

Solo vuota cornice di spavento. A casa mia, vivevo negli interstizi del castello e negli intervalli della sua giovane vita. Gli facevo il letto, gli servivo il pranzo di nascosto, mentre lui era di là a radersi. A casa mia, al cuore del più familiare, quando il giovanotto depose il rasoio, volgendosi alla ricerca di un cerotto, e il mio sguardo cadde sul suo volto dove brillava una goccia di sangue.
Era sangue, era. Mi gettava l’immagine di Nostro Signore negli occhi, con tutti i suoi arcobaleni. Riluceva. Giù per il mento… Ah!… Che vita. Eravamo vicini. Si ritrasse. ” Attento” dissi ” attento a non tagliarvi! E’ più pericoloso di quanto non crediate, in questo paese.” Quindi, con braccio indurito, dato di piglio allo specchio, non ricordo cosa soggiunsi. Forse parole dettate dalla solitudine, dal vuoto, dalla disperazione. Ricordo solo che, aprendo la finestra con uno strattone, lanciai fuori lo specchio che andò a frantumarsi in mille pezzi laggiù, sul selciato del cortile.
” Via! – ecco cosa dissi, ora ricordo – E’ questo dannato oggetto che ha combinato il misfatto. E’ un lurido strumento che ci obbliga a trascinare care immagini. Via!”. Lo specchio era un vero e proprio carcere, trappola per topi erano l’ammirazione e il desiderio per la bellezza di quel ragazzo goffo e roseo, e io non volevo essere prigioniero! Prigioniero di chi si ritrae, verde di orrore. Là, nello specchio dove scorreva nero sangue fumante e noi, anime dei travolti da morte, tutti freddi intorno alla fossa… Di qua, di là, a pigiarci verso lo specchio tiepido con grida raccapriccianti, nel desiderio… Sì!… La sete d’altra vita…
Tutti bianchi eravamo – giovani donne e ragazzi e vecchi che molto soffrirono, fanciulle morte prima che il loro cuore conoscesse il dolore e molti guerrieri col petto squarciato, uccisi in battaglia, con l’arme sporche di sangue – tutti a sghimbescio intorno alla fossa… A chinarci verso conca e cratere.
All’abbeveratoio andavamo, di qua, di là, ovunque lui ci gettasse l’immagine viva negli occhi. A bere… era sangue, era ciò che riluceva sul collo… il sangue e l’immagine che nel sangue era.
E noi già afferrati a quel rosa di bambola, l’uno nell’altro le grinfie, come fosse il corpo d’ognuno di noi il suo giovane corpo. E lui, di riflesso, la spada affilata dalla coscia sguainando, si ritraeva e non lasciava le teste esangui dei morti avvicinarsi al sangue… Giù per il collo, brillava… Cristo… Che vita! Da lontano sentiva di biancospino la carogna del cane morto da tempo, e il letame giù in cortile spandeva odori muschiati… Quei riccioli, uncini di tortura; e le cosce…una croce stillante miele dorato, profumatissimi aromi… Dalla ferita era uscita qualche goccia di sangue, e questo gli colava sul mento. Feci un gesto, come per afferrarlo alla gola. Lui si ritrasse, e la mia mano sfiorò … l’ossario, il rosario cui era appeso il crocifisso.
Un subitaneo mutamento si verificò in me: l’acquolina che avevo in bocca si seccò, cessò il ronzio alle orecchie e il furore scomparve con tanta rapidità, da far dubitare che ci fosse stato. “Impiegato! Laissez moi partir, mi lasci stare! Sono un onesto e rispettabile impiegato – blaterava, rosso in viso. – Impiegato di uno studio legale! A Mina la definizione non piacerebbe. Procuratore legale, piuttosto, perché, proprio sul punto di lasciare Londra, m’è giunta comunicazione che avevo superato l’esame; e ora sono un procuratore legale a pieno diritto!” E ricominciava a fregarsi gli occhi. Oh mentitemi, ditemi che era vivo e sveglio, e nei Carpazi! Un volto putrefatto e fuggitivo, lontano da casa sua, tra le mie negre braccia.
Bevono sangue anche la zanzara, la sanguisuga, la cimice, la pulce, il ragno e il pidocchio. E noi? Meno di un pidocchio. La cesta di concime si ritraeva da noi, hélas! invecchiati di colpo, curvati dal tempo come un punto di domanda… Così? Dando ali alla disperazione, le braccia sollevate all’altezza delle spalle, le mani contratte, le dita a simulare artigli, lampi… Senza denti, risucchiati in bocca e fallendo qui come nessun altro osa fallire, i morti affacciati all’altezza della testa: una maschera vuota di dietro, uscita dal muro, andata a sghimbescio e agitando le mani di larva. Per piacere! Jonathan! Per piacere! E lui, l’abbeveratoio, verde di orrore, gridare che il buco è così grande, che è come scopare il vento.
E io morto, senza colore; soffiato via, bianco per sempre… Occhi e bocca così aperti e vuoti. Occorre aggiungere altro?

Sì… Io scrivevo nell’intervallo del tempo di Jonathan. Armato di oggetti appuntiti – penne, matite conficcate nel cuore – controllavo le parole, non solo le emozioni e i sentimenti; da lassù, il mio tavolo di fakiro, mi dissanguavo per colorare uno straccio di carta, senza valore.
Scrivere nel nero? Scrivere fino alla fine? E smetterla per non arrivare alla paura della morte?
Ho vegliato tutta la notte. Vampiro, dicono. Dalla finestra elevata filtra un tenero sole e le grida di bambini che passano. Dalla cella vicina, dove sezionano i cadaveri dei giustiziati, giunge la cordiale intellettuale risata del dottor Zeta. Dice che sono troppo sensibile, e ieri mi parlava di quel particolare umore che si accompagna alla debolezza dei miei organi, alla delicatezza dei nervi, alla vivacità dell’immaginazione, che rende inclini a compatire, a rabbrividire, ad ammirare, a temere, a turbarsi, a piangere, o a scrivere da morire. ” Gardez la tete froide, monsieur Dracula, la testa fredda che v’impedirà tra l’altro l’identificazione morbosa con i topi e i pipistrelli della vostra cella…”. “Ma – ho balbettato – ma io non uscirò vivo di qui…”. “Uscirà… uscirà…”, ha blaterato misteriosamente. E ora, come ogni mattina, è al lavoro nel suo laboratorio, e cordialmente scherza coi guardiani.
Preso un cadavere, dice
io lo seziono
con molto scrupolo, dice
stimando il costo.

L’ossa forniscono
tanta calcina
da far l’intonaco
d’una cucina.

E si recupera
tanta grafite
da fare al massimo
cento matite…

Cento matite! E ride, il dottor Zeta, lanciando verso di me la voce; poi continua, ridendo di ciò che non è buono, una specie di risata etica.

Ed è ridicolo, dice
in fondo in fondo,
che, mentre vivono
su questo mondo,

si dian cert’arie
tanti mortali,
se poi gli scheletri
son tutti uguali!…

Rida chi può, caro dottor Zeta. Mi sveglio a mezzanotte. Gonfia maschera d’atride. Vampiro? Quel che mi dissangua è la solitudine, l’attesa del giorno nascosto. E la pietra dove si volta… una sola volta.
C’ero una volta. Credo che c’eravamo. Non è questo il mondo che mi amerà. Va’, lettera che succhia… Stai portando via tutte le mie albe e voli di libro in libro, poi ti fermi da me, per i tuoi pasti di carne e di parole fredde. Pago caro la tua vicinanza! Ah!… questo abietto desiderio d’essere amato! E di restare! Abbarbicarmi a te… Così!… Con la tenacia delle erbacce del cimitero… Rendetemi, se non l’amore, giustizia; conto su tutta quella di cui sono capaci gli orribili lettori della notte… Ascoltateli i figli della notte. Che musica fanno, eh? Tu dai una ricompensa a chi ti porterà questa lettera. Sorridente belva che ad ogni sillaba mi salta alla gola, ora ha bisogno di te per rinsanguarsi e passare – chissà – a nouvelles fleurs, nouveaux astres, nouvelles chairs, nouvelles langues…

Mentre scrivo mi giunge dal corridoio sottostante il trepestio di molti piedi. Cosa vogliono ancora farmi? Cosa vogliono ancora farci? S’avvicinano, sento passi tumultuosi. E un panico, un panico m’invade, un’eccitazione sale e discende da tutti gli organi del corpo come una cascata di sangue a corrente alternata, simultaneamente calda e fredda. Addento la mia angoscia… Addento la mia…
I veri vampiri marciano nella luce. Nessuna lettera riuscirà a fermare il cammino dell’immensa e sfolgorante incoscienza del mondo…
Al buio il cuore soffoca; e dove scorreva il sangue brilla, al culmine del suo svanire, la luce di un’aurora troppo limpida da potersi sopportare più a lungo.

Vomito bianco, il mio alito puzza, è già l’alba?…

Eccoli che arrivano, marciando nella luce del sole d’Europa. In fila per due, sbucano dalla porta di là delle arche. Entrano, sono entrati mormorando da tutte le parti gridando che Allah è il più grande. L’odore della vittima li attira nella cella a dozzine, a centinaia, già troppi per contarli. Si ammassano così vicini, attraversando il vasto arco della porta, che non posso scrivere oltre… Sarà una morte veloce, che Dio ci aiuti tutti quanti… Non lo è. Già detto? Addio, sì, addio.
Di Visegràd, in Ungaria, il 30 agosto 1492
fine
(Variante del testo di Gianni De Martino pubblicato da “edizioni di barbablu”)

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