Gius…

 

Giuseppe Pontiggia, l’ultimo saluto

di Gianni De Martino

 

Milano, 30 giugno 2003, chiesa di San Giovanni in Laterano in Piazza Bernini.

Una bara con sopra un mazzo di rose rosse, affiancata da quattro vigili urbani in alta uniforme e i gonfaloni della città di Como – dov’era nato il 25 settembre 1934 – e di Milano onorata dalla presenza e dall’attività di Giuseppe Pontiggia. Morto improvvisamente la notte del 27 giugno scorso, avrebbe compiuto 69 anni a settembre. A stroncarlo, nella sua casa milanese , un collasso cardiocircolatorio.

Accanto a lui la moglie Lucia, il figlio, gli amici . Ha officiato il rito funebre monsignor Gianfranco Ravasi, che ha commentato un passo del Vangelo di Luca, ricordato la serenità e la forza morale dello scrittore e lette alcune parole dell’amico scomparso. Erano parole forse palesemente autobiografiche, anche se messe in bocca al protagonista dell’intenso e bellissimo libro Nati due volte: “ Forse preghiera e guarigione convergono, la preghiera è guarigione: non dal male, ma dalla disperazione. Persino nel momento in cui è solo, la preghiera spezza la solitudine del morente. Ancor oggi mi metto in contatto con una voce che risponde. Non so quale sia. Ma è più durevole e fonda della voce di chi nega. Tante volte l’ho negata anch’io per riscoprirla nei momenti più difficili. E non era un’eco”.

Come la preghiera, la scrittura forse non è che attesa di una voce che risponda …. In fondo, molto in fondo, occorre essere allenati agli “ultrasuoni” – come una volta mi disse Peppo – per poterla davvero distinguere dalla falsa risposta o dall’eco, ed accoglierla. Forse fu la sua garbata, ironica e misurata capacità di accoglienza a spiegare l’amicizia che mi ha legato a un uomo sensibile e riflessivo come Giuseppe Pontiggia. Ci fu subito simpatia, fin dal primo incontro del luglio 1992, avvenuto nella sua casa milanese di via Farneti. A suggerirmi di fare conoscenza con Pontiggia era stato l’amico comune Pier Vittorio Tondelli, pochi giorni prima di un viaggio in Tunisia, nella primavera del 1991. Fu allora che Pier mi parlò di Pontiggia, proponendosi di presentarmelo. Nel frattempo, Pier era tornato a Correggio per morirvi, il 16 dicembre 1991. Mi presentai da solo in via Farneti e fu nel segno di un assente, del comune amico scomparso, che avvenne il mio primo incontro con “Peppo”.

Parlammo di letteratura, naturalmente, o meglio di scrittura. Ricordo ancor oggi con gratitudine i biglietti e le brevi lettere che da allora costituirono i nostri successivi luoghi di incontro e di dialogo. E le dediche apposte per me ai suoi libri. In particolare quella nel volumetto Le sabbie immobili, lasciatomi al termine di quella mattinata del 31 luglio 1992 trascorsa insieme: “ A Gianni tra i pochi narratori veri – questo ritratto satirico su paesaggio italiano”. “ Oh Peppo! – esclamai quando lessi la dedica – ma è quasi una… medaglia!”. Peppo sorrise: “ Volevo solo dirti la mia ammirazione per il tuo talento, che dà esiti discontinui probabilmente per le intermittenze delle tue applicazioni e delle tue ambizioni più alte…”. Che dire di più? Tutta la mia vita è discontinua: nuova, sorgente ad ogni istante… E anche se la mia ambizione più alta, ahimè, è stata quella di dire la ricchezza corrosiva della vita e quasi di fotografarla come la polaroid fotografa, ho dovuto accorgermi che le parole non sono altro che un filtro. E che scrivere significa sorvegliare le parole, non solo le emozioni e i sentimenti… Ad ogni modo, posso ben dire di aver perduto non solo un amico caro, ma anche un maestro di scrittura…

Continuo a pensare che avrei dovuto ascoltarlo di più, che avrei dovuto scrivere contro la mia dissipazione ( che terribile espressione!) , ed anche pubblicare di più. Ma ci sono momenti in cui sono troppo felice per mettermi a scrivere, troppo occupato a coltivare i miei affetti per recarmi in posti alla moda e per piegarmi alle forse necessarie obbligazioni servili richieste dall’industria culturale a cui dobbiamo la trasformazione di un testo in libro.

Nonostante il degrado nostro , della natura e della lingua, nonostante l’inevitabile annientamento del libro, delle culture e del vivente, credo che la gioia sia più profonda della morte. E’ una “gioia eccessiva”, come notava l’amico Elvio Fachinelli: una specie di eccedenza mistica che di solito si tende ad occultare o a tralasciare, e che forse costituisce il segreto del linguaggio. Senza ritenermi innocente ( il che sarebbe ancor più criminale che credersi colpevole) credo che la gioia sia indistruttibile.

In un tempo in cui a formare l’immagine del mondo sono i terroristi e la letteratura è un meccanismo di difesa sociale, tendente a fare accettare il mondo come invece non è affatto, e tenendo anche conto del fatto che numerose vite, forse la maggioranza delle vite, non sono che un asilo d’infanzia, pieni di bambini cresciuti, divenuti ancora più stupidi, meno attenti e più arroganti, per delicatezza non ho voluto far passare la gioia eccessiva nel linguaggio e soprattutto nei libri in commercio. Avrei dovuto sgomitare, gridare anch’io sui tetti di Canale5 e cercare un mio posticino all’interno della spazzatura della cultura. Insomma, non ho mai creduto alle vette – grazie a Dio – su cui piantare una qualche sporca bandierina, ma ho visto innumerevoli altipiani scintillanti, che sono altrettante vette o anche baratri. E’, questo, il motivo principale, per il quale non ho cercato di assolvere ai miei compiti mondani di scalatore di vette che il meno possibile, a costo di apparire uno yogi, un sufi o più probabilmente un disertore.

E’ da un po’ di tempo che i fili che legano alla vita, ovvero le relazioni con le persone che ci circondano, si spezzano uno dopo l’altro… Mi piacerebbe – da cattolico quale sono per educazione e fedeltà ai miei primi maestri – credere di avere ormai molti amici in Paradiso, ma d’altra parte – poco convinto da quella semplicistica metafisica estroversa che è, oggi, il cristianesimo – sento l’infinità della perdita di “Peppo”e l’inadeguatezza delle parole a colmare il vuoto o solo a dare una pallida idea dell’intensità e della ferocia di quel punto in cui una vita va al di là… Lo sperimentiamo ogni volta, scrivendo oltre, sempre oltre e quasi al di là dell’io, nell’attesa – non inerte – di un voce con cui scambiare giuste domande e giuste risposte, che però non siano un’eco…

Inoltrarsi nel silenzio, allora. E andare nell’invisibile, nell’inaudibile. Scrivendo non si sa. Si va. E alla fine, dopo tutto l’odio e l’amore che ci è stato mostrato quaggiù, è giocoforza riconoscere che l’ultima parola è “amore”, l’anestetico più potente che esista. Ma non abbiamo che vecchie parole, quando avremmo bisogno di una lingua angelica…

Eppure non basta avere una lingua e un “cuore” di poetessa, vale a dire un cuore d’acciaio. Forse ci occorre un “cuore” aperto all’innumerevole esistere. Capace cioè di accogliere – al di là della preoccupazione per se stessi e persino al di là di ogni paura o speranza – anche la figura del “Risorto, insieme alle molte altre storie possibili, o anche impossibili.

Al di là e oltre l’ampiezza di tutti i cieli, forse occorre una figura nuova, una parola nuova, un altro desiderio più alto e più veloce della morte abituale … In ogni caso, è forse nel silenzio, attorno e non dentro le parole, l’ascolto dell’ “ultrasuono” di cui parlava, e scriveva, Peppo…

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Una risposta a   Gius…

  1. anonimo scrive:

    sifossifoco ha visto anco questo

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