FAR PARLARE I MORTI

FAR PARLARE I MORTI 
di Gianni De Martino

 

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Il capostipite storico di tutti i Dracula è il principe Vlad III di Valacchia.
Ha fatto il “lavoro sporco”, ha cioè combattuto i turchi e difeso, con metodi energici, la cristianità.
Ora, tradito dal re e dal papa, è prigioniero in una torre del castello di Visegrad. E, prossimo alla morte, scrive la sua ultima lettera.
L’azione si svolge dalla notte al giorno. All’alba Dracula morirà. E questo momento estremo è intenso e feroce, fra illuminazione e abbaglio.

Non c’è tempo da perdere. Non c’è più tempo. Occorre dire in fretta, dire prima che sia troppo tardi… La parola chiave, per l’interprete, è : TENSIONE.

Ciò che viene rappresentato, in accordo con l’idea di un teatro vero, di un teatro della crudeltà (Artaud) è una messa a morte.

Tensione e attenzione.
In genere non facciamo attenzione. La nostra attenzione normale è usata allo scopo di ottenere qualcosa a cui attribuiamo valore. Qui, invece, Dracula non ha niente da perdere o da guadagnare. E quindi la sua attenzione è nuda.

Tutto quello che gli resta è una coscienza sveglia.

E’ attento come un animale. Sente e vede tutto, ogni minima cosa.

E le sue ultime parole – come quelle dei moribondi o come in una trance lucida – esprimono la verità, la sua verità.

La sua verità è l’umiliazione e l’impotenza.

E’ prigioniero, deve morire, non c’è niente da fare.

Il mondo gli appare vuoto, desolato e magico.

Alla fine della vita scopre l’immenso valore della vita che sta per perdere.

E quindi ha questo furore di dire, di dire prima che sia troppo tardi.

Da dove viene l’umiliazione del personaggio? Viene dal fatto che cerca invano di non vedere la sua impotenza. Non è l’impotenza in se stessa a creare l’umiliazione, ma lo shock provato dalla sua pretesa onnipotenza di principe e di guerriero che si oppone alla realtà delle cose e della situazione in cui ora si trova.

In prigione, in attesa dell’esecuzione.

La sua unica via d’uscita è restare immobile.

Se lotta contro l’umiliazione, l’umiliazione lo distrugge, accresce la sua disarmonia interiore; se invece lascia che l’umiliazione sia, senza opporsi, allora l’umiliazione costruisce la sua verità.

Non appena riesce a stare immobile nel suo stato umiliato, scopre con sorpresa che lì è l’unico porto sicuro, l’unico luogo al mondo in cui trova una sicurezza…

Sicché l’umiliazione può generare umiltà, una condizione d’imprigionamento può generare libertà.

Per Dracula, che scrive la sua ultima lettera, si tratterà della libertà e della luce della mente, l’unica libertà possibile.

Il personaggio si afferma attraverso una negazione, una spoliazione. Il suo fare oltraggioso dipende dal fatto che ha ribaltato le regole di un gioco che lo volevano silenzioso.

Finora, infatti, Dracula taceva. E’ intorno al suo silenzio che gli autori hanno costruito delle storie, che sono sempre state un discorso su Dracula. Ora invece Dracula parla. E la sua voce ci giunge, come quella di un fantasma, dall’altro lato – indicibile per la voce narrante umana.

E il fantastico, grazie al teatro, scivola verso questo lato.

Quale codice ci chiede di condividere?

E’ difficile accettare l’alterità che, paradossalmente, è in ognuno di noi. L’esperienza dell’umiltà porta a riconoscere che siamo tutti – uomini, animali, piante e pietre – nelle ossa gli uni degli altri e che ognuno appartiene a tutti gli altri.

E’ questo che ho inteso rappresentare: il cammino dalla notte al giorno e la nascita della compassione.

Vi si arriva attraverso molti dubbi, molte esitazioni.

La voce di Dracula, il suo dramma dell’umiliazione, esprime questo collegamento tra la scrittura, il teatro e la morte.

Il vampiro dà per scontato che ascolteremo e accetteremo la sua storia.

Ma questo paradosso non presuppone che noi, gli spettatori, siamo suoi simili?
Gianni De Martino
Milano, 27 marzo 1994

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