Il massacro degli innocenti

IL MASSACRO DEGLI INNOCENTI
 
 Nicolas Poussin, Le massacre des Innocents (1628-1629), musée Condé, Chantilly
 
Il braccio del carnefice respinge la madre urlante mentre il piede schiaccia la gola del neonato, bloccando il passaggio del respiro nella vittima, cercando di privarlo di quell’aria che sostiene e porta le parole.
Il pianto e il gorgoglìo della vittima non si trasformano in appello per nessuno. E il corpo, più che sepolto, viene fatto scomparire in fretta. Sui luoghi del massacro cadrà una neve bianca, immacolata, che cancellerà tracce, passi, impronte di vite, di memorie, di culture. E a primavera sulle fosse dei campi di sterminio sbocceranno margherite, rose o  girasoli.
 Dopo anni di silenzio, vergogna, paura, i testimoni forse finiranno con l’inventarsi strane storie o con il dire che altrove era peggio…Non si insisterà mai abbastanza sulla dimenticanza dei nomi delle vittime, la negazione dell’accaduto e questi strani buchi di memoria…

Banalità del male ? E’ come se, una volta abolito il comandamento “non uccidere”, l’apparato psichico ritornasse al caos primordiale e le parole incominciassero a girare a vuoto…confondendo vittime e carnefici. L’orrore esiste, ma resta indicibile…La violenza sotto forma di massacro ( che sia, con le dovute differenze, quello della Shoah, oppure le stragi del Gulag, della Cambogia, di New York, del Darfur e degli altri innumerevoli episodi di distruttività umana) costituisce per il pensiero una specie di blocco che sembra abolire il lavoro della memoria e favorire la ripetizione di altre innumerevoli violenze ordinarie e straordinarie.  “ Potenza terribile della ripetizione – scrive Musil nell’ Uomo senza qualità – terribile divinità! Attrazione del vuoto che trascina sempre più in basso come nell’imbuto di un vortice le cui  pareti si allontanano…”.  

RIMEMBRARE

 … All’inizio era il silenzio, ed è con questo inizio traumatico alle origini dell’umano che si confronta la scrittura, così come l’arte di artisti decisivi e ogni altro raro gesto d’intelligenza, di compassione o di pietà dovuto alla specie umana. Ripetere, ricordare, elaborare e tracciare un significato nello scorrere del caos del mondo. Se possibile, convertirsi e riparare. Non tutte le strade portano al vuoto.
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E’ la ragione per la quale un prete cattolico, padre Patrick Desbois,  autore di un libro che sto leggendo in questi giorni (Fucilateli tutti) ha iniziato un lavoro immenso condotto, fino ad oggi, nell’ombra, per dare la parola agli ultimi testimoni dello sterminio per fucilazione degli ebrei e degli zingari nell’Europa dell’Est invasa dalle truppe tedesche a partire dal giugno 1941.Villaggio dopo villaggio questo inquieto archeologo dell’immondo – mosso dal ricordo del nonno deportato in un campo tedesco in Ucraina durante la Seconda guerra mondiale ritrova e intervista i testimoni, riscopre le fosse comuni, nelle quali porta alla luce bossoli di fucili e di mitragliatrici, ossa di uomini, donne e bambini assassinati, così come oggetti personali corrosi dal tempo.

Nell’ultimo decennio, padre Desbois e il suo team dell’associazione Yahad-In Unum, l’uno e l’altro insieme, fondata per iniziativa cattolica ed ebraica, hanno raccolto più di mille testimonianze dei sopravvissuti allo sterminio nazista sul fronte orientale. Il materiale storico, le testimonianze orali sono oggi a disposizione degli universatori e dei ricercatori. L’attività di investigazione storica di Desbois ha portato a ritrovare il sito di Bodganivka, in Ucraina, dove erano sepolti i resti di 42.000 ebrei. Molti preferiscono non parlarne, altri non ricordano, altri ancora si vergognano a raccontare quello che hanno vissuto. E quelli che parlano lo fanno con sconforto perché si chiedono: “Chi potrebbe interessarsi a queste cose?”.

A interessarsi a queste cose è un prete che ancora ricorda quello che l’Invisibile dice a Caino dopo l’uccisione di Abele: “Dov’è tuo fratello? Cosa hai fatto a tuo fratello?”.  “Io – dice padre Desbois – ho sempre sentito molto l’intensità di questo interrogativo. Credo che gli ebrei comprendano molto bene con quanto riguardo lavoriamo al ritrovamento dei corpi per restituirli al rispetto di una sepoltura e affinchè la preghiera ebraica del kaddish possa essere recitata. Direi che il nostro lavoro è un po’ la fraternità in atto, in azione. I corpi degli ebrei sono nei nostri giardini, nei nostri parchi pubblici, nelle nostre foreste – e credo che i cristiani dei paesi dell’Est lo comprendano bene”.

Il motivo di questo lavoro è portare alla luce quello che, nelle fosse e il fango anonimo, resta dei morti – per dare loro una sepoltura e un nome, “rendere alle vittime la loro dignità umana”. Recuperare la memoria e restituire dignità ai morti dimenticati è un metodo per prevenire un nuovo olocausto. «Non possiamo permettere che l’Europa dimentichi i suoi morti o che lasci abbandonate migliaia di tombe senza nome. Quello che facciamo – dice padre Desbois – per la Cambogia o per il Darfur, dobbiamo farlo anche per i morti del nostro continente. E siamo già in ritardo di 60 anni». Insomma, una lotta contro il tempo, affinché la mortificazione delle vite, delle memorie, delle culture operata in Europa da titani e superuomini  non abbia l’ultima parola.

Un prêtre aux champs d’horreur (in francese, su famillechretienne)

Su BombaCarta” (un’intervista di Stas’ Gawronski  a Patrick Desbois)

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