Sull’ “utilità” della letteratura

“… Pier Vittorio Tondelli, scomparso nel 1991 a soli 36 anni, scrisse tra i suoi ultimi appunti: ‘La letteratura non salva, mai’. Eppure egli aveva ‘dato’ la sua vita per la letteratura. Sono parole che ricordano drammaticamente gli ultimi versi di Clemente Rebora: Lungi da me la scappatoia dell’arte/ per fuggir la stretta via che salva! L’arte sarebbe dunque una scappatoia? Sembra esserlo anche per Jean Cocteau, almeno quando scrive a Jacques Maritan: “ La letteratura è impossibile, bisogna uscirne, ed è inutile cercare di tirarsene fuori con la letteratura perché solo l’amore e la fede ci consentono di uscire da noi stessi”. In queste affermazioni la letteratura appare inutile e tuttavia ha il coraggio di confrontarsi con tensioni forti, anzi con la più forte: quella della ‘salvezza’. Più crudamente lo scrittore Gianni De Martino precisa: ‘ la fedeltà alla letteratura è ciò che resta della fede quando la si è perduta. E’ ciò che chiamo disperazione, che è anche la verità del Calvario: Dio ci ha abbandonati, non ci resta più che l’amore per la scrittura”. La letteratura vivrebbe delle ceneri della fede in una vita che ha perso Dio e vive l’abbandono nel mondo. Sarebbe una forma di tragica consolazione, che confina con l’infinita vanità del tutto ( Giacomo Leopardi). Come non ricordare a questo punto anche il verso eloquente di Stèphane Mallarmé: La carne è triste, ahimè! E ho letto tutti i libri, che dice la vanità, tipicamente decadente, dell’esperienza letteraria, che va di pari passo con la tristezza legata alla sazietà effimera, alla mancanza di un orizzonte ulteriore…”.

 Da Civiltà Cattolica, quaderno 3639 (2 febbraio 2002)

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