Shaida, la saga delle donne bomba

 SHAHIDA, LA SAGA DELLE DONNE-BOMBA

La partecipazione delle donne nelle azioni di martirio in Palestina e in tutto il sacro mondo islamico sono halal [lecite, pure, benedette, giuridicamente conformi alla legge di Allah ] data la situazione di occupazione di gran parte di queste terre da parte di ebrei e americani”. ( Sheik Yusuf al Qaradawi – Università islamica del Qatar – dalla fatwa del mese di aprile 2003 che autorizza la fabbricazione e l’uso di donne-bomba ).

Secondo questa fatwa, un parere oggi condiviso da numerosi giuristi musulmani, per una donna accedere al martirio è una tappa verso la parità dei sessi. La fabbricazione e l’uso della donna bomba è il livello di perfidia, di malvagità e di odio più basso* * raggiunto dall’uomo cosiddetto civilizzato e porta a riconsiderare la definizione dei limiti della salute mentale e della patologia degli individui e di interi gruppi umani.

“… Voi siete la mia annata di gocce di rugiada che schiaccerano i carri armati dell’Entità sionista ( lo Stato d’ Israele). Shaihida ! Martirio… martirio fino a Gerusalemme ! ” ( Yasser Arafat )

“Oh Hanadi, martire di Allah, fa’ esplodere il nemico!” ( da “Libro del mese”, supplemento quotidiano Al-Ayyam del 22 agosto 2005 )


«Canta, Marika, canta, come sei bella nell’ora del destino/
ora che stringi la dinamite come un figlio in seno
».

( Da Marika di Roberto Vecchioni, espressione di una più generale infanzia italiana, medio-italiana, che da pubertà infelice e sinistrata si è tramutata in demenza ).

" Hanadi Tayssir Jaradat, 25 anni, laureata in giurisprudenza, ha ucciso 19 persone. Secondo una tradizione del nostro amato Profeta nessuno può dire chi muore shaid e a quale dei nostri fratelli e delle nostre sorelle spetta il janatu firdaws, il luogo più alto. Ma, in tutta sincerità, c’è qualcuno che se la sentirebbe di dire con certezza che questa sorella vedrà il fuoco?"  postato da alhamdulillah, fonte: an-nisa, donne musulmane a confronto

 

Nella foto, Hanadi Jaradat, la maligna terrorista palestinese che massacrò 22 civili israeliani innocenti (ebrei ed arabi, compresi quattro bambini ) al ristorante Maxim di Haifa il 4 ottobre 3003.

CATTIVA LETTERATURA PALESTINESE

Oh Hanadi, martire di Allah, fa’ esplodere il nemico!”

Il Ministero della cultura dell’Autorità Palestinese ha pubblicato lunedì il suo “Libro del Mese”, una raccolta di poesie in onore della terrorista suicida Hanadi Jaradat responsabile dell’assassinio di 21 israeliani innocenti. Il libro è stato distribuito come supplemento speciale del quotidiano Al-Ayyam.

Intitolata “Cosa disse Hanadi?”, la raccolta comprende una poesia che celebra l’attentato terrorista della Jaradat definendolo “la meta più alta”.

"What did Hanadi say?"

[Dedication:]

"To the Rose of Palestine, the Iris of [Mount] Carmel, the Martyr for Allah
Hanadi Jaradat"

What did Hanadi say
When she was told [her brother] Fadi died as a Matryr for Allah..?
Where is the [Arab] nation..?
The armies hid
Nothing left in the field
Save the hostile sound
Not Palestine that was once theirs
Not the sound of Jihad
All of them, at the moment of decision
Surrender, obey the enemies.
O Hanadi! O Hanadi!
Revenge calls!
She shouted: ‘O the light of my eyes!
O my beloved, I long for Haifa’
O Hanadi! O Hanadi..!
The flag of the nation is not flying in the fields of Jihad
And the thieving enemy
Continues in his stubbornness…
O Hanadi! O Hanadi!
Shake the earth under the feet of the enemies!
Blow it up!
Hanadi said: … ‘It is my wedding
It is the wedding of Hanadi
The day when death as a Martyr for Allah becomes the highest goal
That liberates my land.
["What Did Hanadi Say," PA Ministry of Culture Publication of the Month Supplement, Al-Ayyam, August 22, 2005]

La poesia è dedicata (con immagine) a Hanadi Jaradat, definita “Rosa della Palestina, Iris del Carmelo, Martire di Allah”. La sera di sabato 4 ottobre 2003 la Jaradat si fece esplodere nel ristorante Maxim di Haifa uccidendo ventun israeliani, sia ebrei che arabi, compresi quattro bambini. Più di sessanta i feriti e mutilati. L’attentato venne rivendicato dalla Jihad Islamica.

La poesia biasima la nazione araba perché ignora la jihad: “Dov’è la nazione araba? / Gli eserciti si sono nascosti / non rimane nulla sul campo… / non il suono della jihad / tutti loro, nell’ora della decisione / si sono arresi, obbediscono al nemico… O Hanadi! O Hanadi! / La vendetta chiama!… / La bandiera della nazione non sventola sui campi della jihad”.
La poesia si conclude quando la terrorista prende l’iniziativa: “Oh, Hanadi! O Hanadi! / Fa’ tremare la terra sotto i piedi del nemico! / Fallo esplodere! / Hanadi disse: Sono le mie nozze, / sono le nozze di Hanadi / il giorno in cui la morte come martire per Allah diviene la meta più alta / che libera la mia terra”.

Questa celebrazione del terrorismo stragista non è frutto di un’iniziativa privata, bensì di una pubblicazione edita dal Ministero della cultura dell’Autorità Palestinese.

(Da: Palestinian Media Watch Bulletin, http://www.pmw.org.il , 22.08.05: via Palestian Racism ).


Il corpo bomba

di Lea Melandri*

"Il dono di sé colpisce l’immaginazione più di quello della ricchezza. Una prodigalità naturale introduce nel gioco delle forze un sovrappiù che dà potenza a colui che pone la gloria al di sopra dell’interesse. Ognuno di noi allora viene spinto fuori dalla limitatezza della sua persona e si perde, per quanto può, nella comunità dei suoi simili"

(G.Bataille, Il limite dell’utile, Adelphi 2000).

Quando scrisse queste considerazioni, tra il 1939 e il 1945, Bataille pensava a ciò che accomuna "vita guerriera" e "vita religiosa" – l’abnegazione fino alla morte – e ne indicava l’esempio più evidente in "una comunità mistica di soldati come l’Islam". Non poteva certo immaginare che la disponibilità al "martirio", ritenuto segno di predilezione divina e riconoscimento di onore presso la comunità di appartenenza, si sarebbe trasformata un giorno nella lucida, rabbiosa scelta di impugnare il proprio corpo come un’arma o di farlo esplodere come una bomba per uccidere, umiliare, riempire di orrore il "nemico".

L’"evento" che l’11 settembre 2001, giorno dell’attacco di terroristi suicidi alle Torri Gemelle di New York, è parso cambiare il corso della storia, deve gran parte della sua terribilità e del suo fascino alla comparsa di una "nuova forma di guerra" capace, come sottolineò unanimemente la stampa occidentale, di sconvolgere la vita quotidiana evocando le angosce primordiali dell’imprevedibile, ma anche di rendere impotenti e obsoleti i più raffinati sistemi militari: le "bombe umane", scagliate contro una "pacifica comunità" hanno dimostrato di poter ottenere con pochi individui gli effetti devastanti di un esercito. Nel corso dei mesi successivi, e a tuttora, sia pure in dimensioni meno spettacolari e in contesti molto diversi, la strategia sorprendente imposta, in nome dell’Islam, dai terroristi di Al Quaeda è sembrata generalizzarsi: dai "martiri" palestinesi che in numero crescente, soprattutto dopo l’occupazione dei Territori decisa dal governo Sharon, si sono fatti esplodere nei luoghi abitualmente più frequentati dagli israeliani, bar, autobus, supermercati, fino al gesto di un probabile aspirante suicida che il 18 aprile scorso si è schiantato con un aereo da turismo contro il grattacielo Pirelli a Milano, provocando due morti. Ma l’omologazione è fuorviante, sia quando giustifica come "difesa dal terrorismo" guerre e massacri di civili, sia quando individua ideologicamente nell’omicidio-suicidio l’arma dei deboli e degli oppressi.

All’attentato dell’11 settembre a New York qualcuno ha attribuito la valenza simbolica di una "sfida". "Contro un sistema che vive dell’esclusione della morte, morte-zero anche in guerra -ha scritto J.Baudrillard (Lo spirito del terrorismo, Cortina 2002)- si erge la morte sacrificale per un’idea".

La contrapposizione, come avverte lo stesso Baudrillard, ha radici anche all’interno della nostra civiltà, come ombra o contropartita nascosta di un potere che, esaltandosi oltre misura, prepara fatalmente anche la sua caduta. Questo immaginario le avanguardie dell’Islam hanno dimostrato di conoscerlo e di saperlo abilmente manovrare, e non solo per i rapporti intercorsi con gli Stati Uniti prima dell’11 settembre.

La mistica della guerra, al di là delle diverse fedi religiose e politiche, parla la lingua comune di un arcaico "ideale virile" che cova, mai del tutto estinto, dietro l’immagine di un tranquillo, "civile", benessere.

L’"eroe-martire", figura incarnata del legame comunitario, ricompare ogni volta che , per stringere in un corpo solo la nazione, diventa necessario innalzare un’idea, un credo, al di sopra dell’interesse del singolo e della stessa pulsione biologica alla sopravvivenza.

Del "virile" coraggio di sacrificare la vita, in nome di Dio e del proprio popolo, hanno parlato da fronti opposti sia Bush che Bin Laden, ma un richiamo velato in questo senso si poteva leggere anche nell’allusione di Susan Sontag alla "viltà" dei suoi connazionali, abituati da tempo a colpire dall’alto, al riparo di armi sofisticate e senza perdite proprie. Fantasmi di divinità guerriere e di apocalittici angeli vendicatori hanno fatto passare in secondo piano la retorica di morte che accompagna da sempre la lotta per il dominio, riportata al suo volto originario: due contendenti, due "nazioni" cementate al proprio interno dal sangue che le "patrie" chiedono in questi casi ai loro figli. Per quanto riguarda il terrorismo suicida praticato da palestinesi, il contesto e i modi sono visibilmente diversi: non una lotta organizzata e sostenuta da potentati economici e finanziari, come per Al Quaeda, ma la reazione disperata a un’occupazione devastante, tanto che qualcuno ha potuto vederla come scelta estrema di "resistenza". Anche in questo caso, tuttavia, l’odio e la disperazione che trasformano il corpo in una bomba, più che a una spinta liberatoria sembrano rispondere a un imperativo di morte, che ha la sua radice nei riti sacrificali, fatti per placare e intercedere salvezza presso un qualche Dio.

Con l’attacco suicida, compiuto perlopiù isolatamente e con armi improvvisate da strumenti di uso domestico, la "guerra" si privatizza tanto da poter prescindere da ogni preparazione; il comando viene dall’interno, dai massacri che il singolo ha potuto vedere coi suoi occhi, dall’ira sofferta per la morte di un amico.

Il massimo di individualità viene a coincidere col massimo di fusione col gruppo.

Che si tratti, nel suo significato più remoto, di un’offerta sacrificale – richiamo alla passione di Cristo o al sacrificio di Abramo – lo dimostrano l’età e il sesso degli aspiranti suicidi: giovani, persino adolescenti, e donne. Il Dio che promette rigenerazione ha bisogno di "innocenti". Il corpo sacrificale per eccellenza è stato, all’origine, quello femminile: materialmente escluso dalla comunità storica degli uomini, simbolicamente presente come vittima e testimone della benevolenza divina.

Il sacrificio di sé, da questa preistoria dimenticata, sembra aver accompagnato ininterrottamente il destino femminile: dedizione all’altro e adeguamento a modelli imposti.

Ma quello che solitamente si consuma nell’oscurità, e senza valore alcuno, può essere talvolta impugnato pubblicamente, in modo che tutti lo vedano: è così che le donne, nella storia religiosa in particolare, hanno potuto, assolutizzando la loro condizione di vittime, aprirsi un varco alla storia, martoriate nel corpo ma esaltate come gli "eroi", in quanto incarnazione degli ideali collettivi. Viene il dubbio che qualcosa di analogo stia avvenendo nell’animo dei giovani palestinesi di fronte a una strada senza uscita: volgere in attivo una morte certa, farla valere per la propria gente e per chi la opprime. Una valenza tragica, sanguinosa, terrificante, che vorrebbe paradossalmente far giustizia ridistribuendo sofferenza e morte, aprire gli occhi di chi non vuole vedere chiudendoli per sempre, rendere visibile la propria umanità disumanizzandosi. ( LEA MELANDRI*, dalla rivista "Carnet" nel Giugno 2002 ) Fonte: http://www.universitadelledonne.it/corpo-bomba.htm

  • Insegnante, redattrice dell’Erba voglio, la rivista di Elvio Fachinelli, Lea Melandri è, tra l’altro, autore de L’Infamia originaria – facciamola finita con il Cuore e la Politica ( L’erba voglio 1977 ).

* * Nota. Il massimo di fusione col gruppo si osserva nella prassi sociali delle formiche ( animali moderni derivati dalla vespa primitiva) , e di altri insetti sociali come le api e le termiti, le cui colonie vengono considerate da alcuni come un unico animale. Le api, in particolare, sono talmente fuse con il gruppo da compromettere la vita di alcuni individui quando il gruppo si sente minacciato. Il loro pratiottismo per l’alveare e lo sciame è talmente istintivo che essi non esiteranno a immergere la loro arma nel nemico, morendo così per autosventramento. Questo atto da kamikaze o da shaid dovrebbe far riflettere coloro che sono convinti che un animale non commetterebbe mai un atto letale per se stesso. La sua efficacia universale è convalidata dal fatto che un rospo, una volta punto da un’ape-shaida, eviterà anche creature innocue, come ad esempio le mosche, cui l’evoluzione ha insegnato ad assomigliare alle api e a ronzare come queste.


Nell’immagine , un pungiglione con la sua sacca velenifera , si può notare che esso è attaccato all’intestino finale dell’ape ,quando si stacca per inocularsi , porta con sè una parte di quest’ultimo , compromettendo la vita dell’insetto. Viene in mente un passaggio de “Le Vespe” di Aristofane, allorché Sosia esclama :

Eh, per Giove, se alle mani qui si viene, il caso è brutto,

ché a veder soltanto i loro pungiglioni, io tremo tutto!

E il CORO (eseguendo un movimento di danza avviluppante):

Lascia stare quell’uomo! O dirai, t’assicuro,

beate le testuggini ch’ànno guscio sí duro!

Ecco, nell’era della regressione generalizzata a livelli non-umani di condotta e allo squilibrio planetario del terrore, oltre a innalzare, purtroppo, qualche muro (come suggerisce Paolo della Sala in Un muro culturale a difesa dell’Europa), occorre diventare come testuggini, a costo di sembrare delle vecchie tartarughe.

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